Il disastro del Vajont: cronaca di una catastrofe evitabile

Il 9 ottobre è l’anniversario della tragedia del Vajont, la catastrofe verificatasi a causa del crollo all’interno dell’enorme diga di parte del versante di una delle montagne su cui si poggiava. Un disastro naturale ma soprattutto umano, dichiarato evitabile, che ha provocato la morte di migliaia di persone e la scomparsa di interi paesi della valle del Piave.
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Sara Del Dot 9 Ottobre 2019

Un enorme muro di calcestruzzo e cemento incastonato tra le montagne annunciato come promessa di energia, denaro, sviluppo ma che presto si trasformerà in un’autentica macchina di morte. La diga del Vajont fa impressione a vedersi. Non a caso, al termine della sua costruzione era stata presentata come la diga a doppio arco più alta del mondo, un progetto visionario finalizzato a sfruttare la forza della natura per generare una sempre maggiore produzione di elettricità. Eppure, questo enorme bacino idrico a cavallo tra il Veneto e il Friuli non entrò mai in funzione. Perché fu la causa di una delle peggiori catastrofi naturali e umane che si siano mai verificate nel nostro Paese.

Il 9 ottobre del 1963, infatti, una massa di 270 milioni di metri cubi di rocce, terra e alberi si riversò nella diga provocando uno sversamento d’acqua nei vicini paesi di Erto e Casso, ma soprattutto un’onda alta 200 metri che, trascinando con sé fango e detriti si riversò sul fondovalle cancellando per sempre il sottostante paese di Longarone e la vita di migliaia di innocenti.

Non conosci bene questa storia? Oggi, nel giorno del suo anniversario, abbiamo deciso di raccontartela.

Un progetto (troppo) ambizioso

Questa maestosa costruzione faceva parte del più ampio progetto chiamato “le dighe del Piave”, finalizzato a una sempre maggiore fornitura di energia elettrica richiesta nel periodo del dopoguerra. Questa complessa rete idraulica, che comprendeva 5 enormi serbatoi e 4 centrali idroelettriche, era stata pensata nel 1929 da Carlo Semenza e Giorgio dal Piaz, ingegneri della SADE (Società Adriatica di Elettricità) e coinvolgeva diversi corsi d’acqua tra cui, appunto, il torrente Vajont al confine tra Veneto e Friuli Venezia-Giulia.

La diga del Vajont rappresentava il completamento di questo progetto, e avrebbe consentito un apporto di energia importante in qualunque periodo dell’anno con il suo bacino di 50 milioni di metri cubi di acqua contenuti da una struttura alta più di 200 metri.

Si trattava infatti della diga a doppio arco più alta del mondo, un vero e proprio motivo di orgoglio nazionale, simbolo dell’inarrestabile conquista della natura da parte dell'uomo, della sua capacità di dominarla e volgerla a proprio vantaggio. A una cosa però gli ideatori della diga non avevano pensato: che la natura si sarebbe potuta ribellare. E lo avrebbe fatto abbattendosi su chi, con questo ambizioso tentativo di dominio, non c’entrava nulla.

La costruzione della diga

Per costruire la diga ci vollero due anni di intenso lavoro, dal 1957 al 1959. Dopo si sarebbe proceduto al collaudo. Il progetto era gestito dalla SADE, che si sarebbe poi convertita in Enel nazionalizzando la diga. Grazie all’impiego di oltre quattrocento lavoratori locali, venne realizzato un sistema di teleferiche che trasportavano 175 tonnellate all’ora di materiali inerti per la costruzione.

Al piedi della diga era presente la centrale di Colomber, che acquisiva energia dal salto dell’acqua, il cui livello massimo all’interno del bacino fu fissato dai gestori a 722,50 metri. Parte della diga poggiava sul versante del monte Toc, lo stesso da cui poi si sarebbe generata la frana che avrebbe provocato il disastro. Il monte Toc, infatti, aveva già dato segnali di cedimento e franosità, ma i costruttori preferirono concentrarsi sull’impermeabilità della struttura a causa della natura calcarea delle rocce piuttosto che della stabilità della struttura su cui la diga si sarebbe poggiata.

Segnali ignorati

I responsabili della costruzione della diga erano consapevoli della condizione di rischio idrogeologico che interessava i versanti del bacino, ma anche se non lo fossero stati, i segnali della fragilità del versante su cui poggiava parte della struttura continuarono a farsi sentire per tutta la durate dei lavori. Rimanendo però inascoltati.

Il primo allarme del fatto che qualcosa su quelle montagne non funzionava come avrebbe dovuto risale al 22 marzo 1959, quando circa tre milioni di metri cubi di detriti caddero nella diga Pontesei, parte del sistema Vajont, provocando la morte dell’operaio Arcangelo Tiziani. Con il passare del tempo, poi, le fragilità della montagna si resero sempre più evidenti. In seguito all’episodio di Pontesei, il geotecnico Leopold Muller espresse le proprie preoccupazioni in merito alla stabilità del versante sinistro della diga (quello del monte Toc, appunto), su cui era presente una frana antica di due chilometri. Preoccupazioni condivise anche con Edoardo Semenza, figlio del progettista della diga ma minimizzate da chi, in quella struttura, aveva investito e vedeva un’inarrestabile fonte di gloria e guadagno.

A segnalare dall’inizio alla fine i rischi in cui la SADE stava mettendo gli abitanti dell’intera valle fu Tina Merlin, giornalista dell’Unità, che in una serie di pubblicazioni denunciò le precarie condizioni del monte Toc, rimanendo inascoltata e addirittura denunciata dalla società per diffusione di notizie false. Notizie che pochissimi anni dopo si sarebbero rivelate drammaticamente vere, portando all’assoluzione della giornalista.

L’inizio della fine

Il 4 novembre 1960, tre anni prima del disastro, iniziarono le sperimentazioni attraverso il riempimento progressivo del bacino. Fu proprio in quell’anno che un’enorme massa di 800.000 metri cubi di roccia franò dal monte Toc all’interno della diga, senza causare danni perché il livello dell’acqua era ancora basso. Nel 1961, dopo diversi test per verificare i limiti di sicurezza, la SADE pose il limite massimo di invaso a 700 metri.

Nel 1963, la diga passò all’Enel, diventando proprietà dello Stato italiano che alzò il limite di invaso a 715 metri. A quel punto il monte Toc iniziò la sua inesorabile caduta, e per arginarne le conseguenze fu imposto un rapidissimo svuotamento della diga, decisione che segnò definitivamente il tragico destino della valle del Piave.

Il disastro del Vajont

Erano le 22.39 del 9 ottobre 1963 quando 270 milioni di metri cubi di roccia si riversarono nel bacino in fase di svuotamento del Vajont alla velocità di 30 metri al secondo. La quantità di materiale scivolato nella diga era più del doppio dell’acqua presente in quel momento. E le conseguenze furono catastrofiche.

La caduta nella diga di parte della parete del monte Toc provocò un’enorme fuoriuscita d’acqua che colpì i paesi presenti nei pressi delle sponde, Casso ed Erto, distruggendo tutti i piccoli borghi presenti nella zona e uccidendo 347 persone.

Ma dalla frana nacque anche un’onda di 50 milioni di metri cubi d’acqua, alta oltre 200 metri, che superò la struttura in cemento e, dopo un volo di quattro minuti, si abbatté sulla valle del Piave trascinando con sé fango, pietre e detriti e spazzando via completamente il paese di Longarone e tutti i suoi abitanti, oltre a provocare centinaia di morti negli abitati circostanti.

La valle del Piave era diventata una distesa di fango. Non c’era più niente. Le vittime del disastro del Vajont furono 1917, di cui 1450 a Longarone, 109 a Codissago e Castellavazzo, 158 a Erto e Casso.

Le conseguenze

Il processo per il disastro del Vajont si concluse sette anni e mezzo dopo la notte della catastrofe, il 25 marzo 2971 riconoscendo che la strage era prevedibile e colpevolizzando la SADE, e quindi lo Stato italiano. Giunti in Cassazione, furono solo due i colpevoli dichiarati e condannati, Alberico Biadene dipendente SADE e Francesco Sensidoni, dipendente del Ministero dei lavori pubblici, rispettivamente a 5 e 3 anni per il reato di inondazione e omicidi, che furono condonati risparmiando il carcere a Sensidoni e riducendolo in modo consistente a Biadene. Nel corso degli anni successivi, si svolsero diversi processi civili che si conclusero con diversi risarcimenti da parte di Enel, Montedison e dello Stato per la perdita di Longarone, di parte della popolazione del Vajont e dei danni provocati ai comuni della zona.