Il reso online non sarà più gratuito: quali marchi hanno deciso di far pagare i capi restituiti

C’è una circolarità nel mondo del fast fashion che di sostenibile non ha nulla: è il reso di tutto ciò che non vogliamo più e che però lascia un’impronta sull’ambiente non indifferente. La nuova politica di alcuni brand è di dire stop a questa pratica: le restituzioni le paghino i clienti.
Entra nel nuovo canale WhatsApp di Ohga
Francesco Castagna 2 Gennaio 2024

Quasi come roba usa e getta, vengono usati soltanto una volta per poi essere riportati in negozio. Sono i capi di abbigliamento dei marchi fast fashion, montagne di vestiti che servono la maggior parte delle volte solo per un’occasione, ma che producono una quantità di emissioni di CO2 che impone un ripensamento di questo modello. Ecco perché da alcuni anni alcuni brand hanno introdotto un costo di restituzione, si passa quindi dal “gratuito” al pagare le spese di trasporto e di rilavorazione, che prima erano a carico delle aziende produttrici.

L’impatto ambientale dei resi

È noto ormai che le operazioni di restituzione prevedano che i capi tornino nelle fabbriche o nei magazzini, con tutto quello che ne consegue: il trasporto su strada e l’energia utilizzata per reintrodurli nuovamente in commercio. Questo meccanismo “al contrario”, che di circolare non ha nulla, ogni anno contribuisce al circa 5-12% delle emissioni globali di CO2 generato dal settore della moda.

Ma c’è di più, questi oggetti non solo vengono comprati senza troppa razionalità dai consumatori, che spesso trasformano le proprie case in camerini di prova, ma spesso li utilizzano e costringono le aziende a non poter introdurre nuovamente quel prodotto in commercio. Il costo relativo alla lavorazione del capo, se si considera una larga scala, non è per nulla sostenibile per le aziende che, al posto di trattarlo, lo spediscono in Paesi del terzo mondo, con la conseguente creazione di intere distese di vestiti in Africa, America Latina e India.

La decisione delle aziende

E così, brand come Amazon, Zara, H&M, J.Crew e Abercrombie & Fitch hanno deciso di darci un taglio e modificare le regole attuali. Zara parte dal Regno Unito, introducendo la tariffa di 1,95 euro per tutti coloro che hanno intenzione di rendere ciò che hanno acquistato. Un dollaro per Amazon, ma per ora solo negli Stati Uniti (le restituzioni rimangono gratuite per alcuni centri con cui l’azienda ha accordi pregressi), si arriva fino a sette dollari per Zara, Macy's, Abercrombie & Fitch, J. Crew, H&M, nel caso dei resi postali. Mentre, questa volta in Italia, se vuoi restituire un capo che hai acquistato online devi pagare 4,95 euro, il reso però è gratuito se si riporta il capo in negozio.

Secondo la società di consulenza Quantis, nel suo report “Sostenibilità: aggiungi al carrello. E-commerce nel settore fashion in Italia: buone prassi di sostenibilità nel contesto omnicanale”, la fase di reverse logistics contribuisce al 3% delle emissioni di gas serra, se si assume un tasso di reso medio del 14%.

Come funziona il diritto al reso in UE

Per i cittadini che fanno parte dell’Unione europea, per ogni prodotto acquistato esiste sempre un periodo di garanzia gratuita prevista di due anni, a meno che i privati non decidano di applicarne una personalizzata, che però non deve andare a sostituire quella prevista dalla direttiva UE. In ogni caso, ogni cittadino ha diritto a restituire ogni oggetto, senza dover dare spiegazioni, entro 14 giorni dall’acquisto.

Fonte| Quantis; Europa.eu;

Contenuto validato dal Comitato Scientifico di Ohga
Il Comitato Scientifico di Ohga è composto da medici, specialisti ed esperti con funzione di validazione dei contenuti del giornale che trattano argomenti medico-scientifici. Si occupa di assicurare la qualità, l’accuratezza, l’affidabilità e l’aggiornamento di tali contenuti attraverso le proprie valutazioni e apposite verifiche.