Il volontario che salva i cani in Cina: la storia di Davide Acito di Action Project Animal

Una tradizione ultra centenaria che autorizza il consumo di carne di cane in Asia. Un Festival (quello di Yulin), anche abbastanza recente perché inaugurato nel 2009, che consente di praticare la più inaudita violenza su questi animali di affezione. C’è per fortuna chi non ha lasciato soli questi cani e che, missione dopo missione, cerca di salvarne il più possibile, nel tentativo di sensibilizzare e porre fine a una crudeltà inaccettabile. Abbiamo intervistato Davide Acito di Action Project Animal, da anni impegnato su questo fronte.
Entra nel nuovo canale WhatsApp di Ohga
Gaia Cortese 16 Luglio 2020

Stipati in piccole gabbie, costretti a viaggi estenuanti per miglia e miglia, senza né acqua né cibo. Vengono maltrattati, bastonati e alal fine uccisi nel modo peggiore. Sono i cani del Dog Meat Trade diffuso in Asia, vittime di una disumanità inaudita, di una ultracentenaria tradizione che autorizza e approva il consumo di carne di cane.

Una cultura che abbiamo imparato a conoscere con il Festival di Yulin, una celebrazione popolare che si tiene ogni anno  nell’omonima città, nel sud est della Cina. In questa occasione si stima che vengano uccisi tra i 10 e i 15mila cani (ma anche gatti), per essere trasformati in cibo. Il festival ha debuttato il 21 giugno 2009, per iniziativa di alcuni venditori appoggiati dalle autorità locali, ma oggi (per fortuna) attira sempre più proteste in tutto il mondo e la speranza è quella di porre fine a questo scempio.

Circa quattro anni fa, Davide Acito ha messo in piedi un progetto per non lasciare soli questi cani. Lo ha fatto proprio in Cina, perché in quel momento non c'erano associazioni impegnate su questo fronte. Così è nata Action Project Animal.

Come e quando hai iniziato a pensare che potevi salvare i cani in Cina?

Ho sempre lavorato nel no profit, ho fatto il dialogatore e il coach per diverse ong e associazioni come Unicef, Action Aid, Amnesty International… Quando ho iniziato a girare il mondo per una fundraising svizzera ho visto con i miei occhi la povertà assoluta degli uomini e la dura realtà di molti animali. Poi è successo che nel 2015 mi trovassi in India. Come associazione offrivamo il nostro aiuto ai cosiddetti intoccabili, l’ultima catena della casta. I cani valevano meno di loro, erano gli ultimi degli ultimi degli ultimi e non avevano nessuna voce. Avevo già sentito parlare del Festival di Yulin, ed era proprio il 21 giugno (quando ha inizio l'evento): in quel momento, dopo aver avuto chiara la condizione in cui sopravvivevano gli animali in India, ho deciso di dare una voce a questi animali.

Così nel 2016 sono passato dai diritti umani a quelli animali e salvare i cani in Cina è diventata la missione della mia vita. Grazie poi al sostegno di Elisabetta Franchi, abbiamo creato un centro di accoglienza per animali, l’Island Dog Village E.F. dove sono presenti veterinari, volontari e personale di servizio 365 giorni all’anno. E sempre sul territorio cinese, collaboriamo con un gruppo di attivisti cinesi.

Perché siete attivi in Cina e non in Italia?

Le due problematiche in Italia e in Cina sono completamente diverse. In Cina quei cani erano veramente soli. La nostra organizzazione è nata come attivismo contro il Dog Meat Trade, siamo veramente entrati in gioco contro una cosa estrema. Il nostro progetto è nato per salvare i cani in Cina perché in quel  momento non lo faceva nessuno, mentre in Italia sono migliaia le associazioni che si occupano di randagismo e di abbandono di cani.

Come avviene il salvataggio di questi animali?

Per me è difficilissimo, perché se vedo dei cani in gabbia vorrei portarli via tutti con me. All’inizio i cani li compravo io stesso, adesso magari siamo aiutati da alcuni cinesi. Mandiamo avanti loro, più che nei wet market, nelle slaughterhouse, i macelli dove vengono uccisi i cani, anche un centinaio al giorno. Noi riusciamo a farne uscire un po’ alla volta, un piccolo gruppo al giorno fino ad arrivare al numero esatto che abbiamo programmato per quella specifica missione; questo lo facciamo proprio nelle settimane che precedono il Festival di Yulin.

In Cina bisogna fare attenzione anche alla polizia, c’è proprio un Police Bureau, una sorta di servizi segreti cinesi che ti tengono costantemente d’occhio. Nel momento in cui vedono anche solo che stai girando un video per documentare qualcosa, sanno che potresti diffonderlo all’estero; è in questo modo, infatti, che molti attivisti portano le notizie nel mondo. Io stesso sono stato pedinato tutto il giorno, perquisito e prelevato di notte dal mio albergo perché stavo facendo attivismo e perché, basandosi sulle mie dirette Facebook, per loro ero un giornalista con in mano solo un visto turistico.

Come sono le condizioni di questi animali?

Stanno malissimo. Salvarli è un gioco da ragazzi se paragonato a quello che c’è dopo. Salvare quattro o cinque cani al giorno implica solo la gestione dell’attività in segretezza, ma il vero problema è come sono conciati questi animali. Quando vengono salvati devono affrontare anche un lungo viaggio che li porta fino al Nord della Cina. Non vogliono morire, hanno tanta di quella adrenalina in corpo che giungono anche a destinazione, ma quando arrivano nella nostra clinica e iniziano a ricevere le infusioni, cibo e acqua, è qui che si lasciano morire.

Nei primi giorni è normale avere uno o due decessi al giorno. Siamo riusciti a battere un record, perdendo solo l’11% dei cani, ma se penso alla mia prima volta quando non ero organizzato ed aiutavo solo altri attivisti, e non c’era nessuna clinica a cui appoggiarsi, si perdevano fino all’80% dei cani e questa cosa mi ha fatto malissimo. A quel punto ho voluto fare io qualcosa e sono riuscito a creare una realtà per cui oggi salviamo i cani davvero.

A tenere in vita i cani durante il viaggio verso il Nord della Cina è la paura, l'adrenalina. Il problema è che poi arrivano in clinica dove possono ricevere le cure e alcuni si lasciano morire.

Le patologie più frequenti sono il cimurro e il parvovirus. Gli indici di trasmissione di queste malattie sono pari a quello del coronavirus. Quando prendiamo questi cani, li mettiamo nei trasportini nel camion e sappiamo che occorrono 24 ore di viaggio per arrivare a destinazione, partiamo già dal presupposto che tutti i cani potrebbero essere malati. Ogni cane, infatti, al suo arrivo viene messo in quarantena e per tutti si usano le stesse accortezze che si avrebbero con un cane malato. I nostri veterinari sono esperti nel trattare queste malattie, il cimurro è quasi letale, il parvovirus lo è un po’ meno, ma abbiamo farmaci molto potenti.

Ci sono poi cani che arrivano in condizioni pessime, con le zampe rotte o con le corde ormai incarnite nel collo. Abbiamo visto davvero di tutto. Paradossalmente, almeno al Festival di Yulin muoiono in poco tempo, in altre situazioni la loro sofferenza è atroce perché perpetrata nel tempo.

Si è parlato tanto del Festival di Yulin..

Del Festival di Yulin le grandi testate giornalistiche hanno dato molta informazione recentemente. Si è parlato di inserire i cani nell’elenco degli animali domestici e di porre un divieto ai wet market, da cui oltretutto sembra essersi scatenata l’epidemia da Covid-19. In un’edizione del Festival di Yulin si può arrivare a 10mila cani uccisi a settimana, ma non è che vietando il festival il problema si risolverà.

Il problema è la tradizione, quella rurale, che sicuramente ha difficoltà a rinunciare a questa risorsa alimentare legata alla tradizione. Banalmente basta pensare alla sagra della porchetta di Ariccia: non è che chiudendola, le persone smetteranno di consumare la porchetta; Yulin è solo la punta di un iceberg. Anzi, forse è proprio a Yulin dove abbiamo più ascolto, dove c’è una sensibilità maggiore proprio perché c’è il Festival. La stampa ha dato grande risalto alla notizia del divieto di consumo di carne da parte del Ministero dell’Agricoltura e degli Affari Rurali, ma in Cina mangiare cani è una cultura millenaria. È impensabile risolvere il problema nell’immediato, è solo un primo passo, ma almeno è quello nella direzione giusta.

Come si muove la tua associazione in tutto questo?

Negli ultimi anni Action Project Animal è stata sostenuta da diversi partner, ha ricevuto qualche donazione, e se siamo fortunati alcune missioni sono anche rimborsate in parte. All’inizio mi sono addirittura autofinanziato, poi grazie alla Fondazione Elisabetta Franchi siamo riusciti a creare l’Island Dog Village EF. In Cina, nella nostra battaglia contro il Festival di Yulin, abbiamo il sostegno dell’organizzazione tedesca Fördeverein Animal Hope and wellness; con loro siamo riusciti anche a mettere dei posti di blocco fissi nelle due strade principali usate dai trafficanti per vendere i cani.

C’è un modo per risolvere il problema del randagismo in Italia?

Un programma di sterilizzazione è fondamentale, ma deve essere fatta anche una buona campagna di sensibilizzazione. In dieci anni rastrellando il Sud con questo metodo possiamo riuscire a risolvere il randagismo, possiamo bloccare le nascite, mettere i cani in adozione oppure occuparci della riemissione del cane sul territorio. Un cane randagio, ovviamente sterilizzato, può anche vivere in libertà. Sono i branchi di 60 cani che possono diventare un problema: ecco perché va fatto un progetto di sterilizzazione, anche sui cani di proprietà. Quante volte succede che una cucciolata di un cane di proprietà venga buttata via in un sacchetto per disfarsi di un problema? Allora sì che il lavoro dei volontari impegnati sulle adozioni, diventa tale e quale svuotare l’oceano con cucchiaino. Deve essersi un protocollo istituzionale, devono esserci incentivi per le adozioni e per le associazioni che se ne occupano.

Credi che potranno esserci dei cambiamenti significativi per la salvaguardia di questi animali in Cina e nelle altri parti del mondo?

A livello globale negli ultimi 5 anni c’è stato già un cambiamento. Non c’è più il silenzio che c’era prima, è una buona cosa. Sui social tante persone si arrabbiano, non condividono certe usanze crudeli e queste cose vengono sempre più a galla. Dovremmo preoccuparci se non ne sentissimo parlare, accade fortunatamente il contrario.

Certi atti crudeli prima non erano neppure dichiarati, oggi aumentano i volontari, si tengono manifestazioni (come quella che si terrà il prossimo 20 settembre a Roma per i diritti degli animali); stiamo lottando per cambiare il Codice Penale, servono pene più alte ed io credo che un risultato lo raggiungeremo anche in breve tempo.

Specialmente in Asia o in Cina, recentemente la città di Shenzhen ha lanciato un messaggio importante, non solo in Cina, ma a livello internazionale, dicendo di no al Dog Meat Trade, e molte altre città, anche al di fuori della Cina, hanno preso esempio mettendo il divieto sul consumo e sul commercio di carne di cane e di gatto. Anche in Indonesia stiamo facendo pressione sui Governi e devo dire che sono molto collaborativi. Tutto quello che vediamo oggi, piccole vittorie che sembrano gocce nell’oceano, anni fa sarebbero state impensabili.