La direttiva Sup pone le aziende di fronte alle sfide dell’economia circolare: come adeguarsi?

Oggi entra in vigore la direttiva europea sulla plastica monouso, che vieta tra l’altro l’immissione sul mercato comunitario di alcune categorie di articoli (come cannucce, piatti e posate monouso). In Italia l’industria ha puntato molto sulle bioplastiche, ma il punto centrale della questione è un altro: quando si realizza un prodotto, non si può più prescindere dalla sua gestione a fine vita.
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Federico Turrisi 3 Luglio 2021
Intervista a Eleonora Foschi Ricercatrice presso il Dipartimento di scienze aziendali dell'Università di Bologna. Collabora al progetto europeo Horizon 2020 "Bio-plastics Europe".

Definire quella di oggi 3 luglio 2021 una data storica forse è un'esagerazione, ma rappresenta comunque un passaggio importante – si spera – nella lotta contro il marine litter, l'inquinamento marino provocato dalla dispersione di rifiuti solidi, soprattutto di plastica. Oggi 3 luglio entra infatti in vigore la direttiva europea 2019/904 "sulla riduzione dell’incidenza di determinati prodotti di plastica sull’ambiente", meglio conosciuta come direttiva Sup (Single Use Plastics).

Come sappiamo, diremo addio a una serie di articoli usa e getta realizzati con materiali plastici, dovremo ridurre il consumo di altri, mentre per altri ancora (come le bottiglie) sono stati fissati obiettivi ambiziosi per quanto riguarda la progettazione, la raccolta e il riciclo. L'obiettivo è non solo tutelare l'ambiente (ricordiamo che l'80% dei rifiuti che ritroviamo in mare e sulle spiagge sono in plastica), ma anche quello di favorire la transizione verso un modello di economia circolare più efficiente.

In Italia, soprattutto dopo la pubblicazione da parte della Commissione Europea delle linee guida per l'applicazione armonizzata della direttiva nei vari Paesi membri, non sono mancate le polemiche. "Danneggia l'industria italiana", è stato l'avvertimento di Confindustria. E nel frattempo il ministro della transizione ecologica Roberto Cingolani ha avviato una trattativa con Bruxelles per "salvare" i prodotti monouso in bioplastiche e quelli in carta che presentano un sottile strato di plastica.

A questo punto qualcuno si potrebbe chiedere: che cosa hanno fatto dal 2019 a oggi le aziende italiane per riconvertirsi? Per rispondere a questa domanda occorre allargare lo sguardo e avere un quadro più chiaro degli obiettivi a cui l'Unione Europea ci dice di tendere. "Sembra quasi che la direttiva Sup sia arrivata per caso. In realtà, si tratta di un percorso che l’Ue ha avviato con la direttiva sui rifiuti prima e l'action plan per l'economia circolare dopo. All'articolo 4 della direttiva 2008/98/CE viene introdotta la cosiddetta «gerarchia dei rifiuti», in cui al primo posto troviamo la prevenzione e che segna l'orientamento da seguire nei prossimi anni sotto il profilo della gestione delle risorse", spiega Eleonora Foschi, ricercatrice presso il Dipartimento di scienze aziendali dell'Università di Bologna, che collabora al progetto europeo Horizon 2020 "Bio-plastics Europe".

Ma con l’entrata in vigore della direttiva Sup che cosa cambia effettivamente per le aziende?

Nella direttiva sono contenute varie misure che interessano il mondo delle imprese: si va dalla riduzione del consumo per i contenitori per alimenti pronto consumo o destinati ad un utilizzo immediato alle restrizioni di mercato che includono, per esempio, le stoviglie e i contenitori per alimenti e bevande in polistirene espanso. E poi c’è un ulteriore tema, quello delle bottiglie, che riguarda invece il riciclo e l’utilizzo di materiale riciclato. Ora, quale trend sta emergendo? Quello che stiamo osservando come gruppo di ricerca è un orientarsi innanzitutto verso nuovi materiali, quelli esclusi dalla direttiva, come la cellulosa e la lignina. In secondo luogo, una rivisitazione più sostanziale verso prodotti riutilizzabili. Questo per quanto riguarda il contesto europeo.

E per quanto riguarda l’Italia?

Nello schema di recepimento della direttiva, il nostro Paese ammetterebbe, per i prodotti dell'allegato B, anche le soluzioni realizzate con plastiche biodegradabili e compostabili certificate e conformi allo standard europeo EN 13432. Questa direzione era già evidente nelle Leggi di Bilancio 2018 e 2019, in cui il governo italiano ha dato grande enfasi a questi materiali, investendo specialmente nel settore delle stoviglie e dei cotton fioc. Risultato, tantissime aziende hanno riconvertito la loro produzione per andare verso le plastiche compostabili. Tuttavia, le linee guida sul recepimento della direttiva della Commissione Europea arrivate lo scorso 31 maggio non contemplano questa versione estensiva dell’Italia. Al momento c’è un contenzioso fra l’Italia e la Commissione europea che rende difficile per le aziende posizionarsi e quindi, capire quale sarà l’impatto sull’industria italiana.

Un dubbio sorge spontaneo: sembra che l’industria italiana abbia voluto puntare su qualcosa, il monouso, che l’Europa ci sta dicendo di contrastare. Il che è un paradosso. Come si “insegna” allora alle aziende a cambiare il loro modello di business e a indirizzarsi verso un approccio circolare?

L’economia circolare deve entrare come asset strategico a prescindere dalla direttiva. A livello di prodotto, il primo step che un’azienda deve mettere in atto è quello relativo all’ecodesign. Cioè quello della riprogettazione affinché il prodotto sia riciclabile, riutilizzabile, riparabile, e mantenga il suo valore anche nel fine vita e in futuri cicli di utilizzo. Nei prodotti più complessi, come quelli dell’elettronica o dell'automotive, un punto chiave è cercare di aumentare la loro vita utile attraverso strategie di sharing e remanufacturing. Tale concetto si applica anche ad alcune applicazioni del packaging, come il food delivery e l’e-commerce dove si stanno sperimentando sistemi di riutilizzo evoluti rispetto al classico deposito su cauzione.

C’è poi il mondo del "rethinking", ovvero un ripensamento dei materiali: se passiamo da una plastica convenzionale a una plastica bio-based compostabile, la filiera cambia completamente, sia per quanto riguarda la supply chain (quindi i fornitori) sia per quanto riguarda il fine vita, ossiamo lo smaltimento e la valorizzazione. Le aziende devono chiedersi: come e dove posso creare maggiore valore? Per esempio, sappiamo oggi che la contaminazione da scarti alimentari è uno dei principali problemi per il riciclo del packaging realizzato in plastica convenzionale; in questo caso, l’utilizzo delle plastiche compostabili può creare valore, perché posso smaltirle nella frazione organica e valorizzarle per la produzione di compost, risolvendo quindi un problema e creando nuove opportunità. Questo significa che la sostituzione one-to-one non è assolutamente percorribile. Ogni materiale alternativo deve essere progettato in ottica di ciclo di vita al fine di capire se crea effettivo beneficio ambientale.

Un’espressione che compare nel testo della direttiva è “responsabilità estesa del produttore”. Che cosa s’intende?

È un concetto interessante che nasce dall’economia ambientale e che si basa sulla necessità di internalizzare le esternalità. Che cosa vuol dire? Io produttore sono responsabile dal punto di vista finanziario e organizzativo del fine vita del prodotto che immetto sul mercato. Questo oggi viene applicato agli imballaggi, ai Pfu (pneumatici fuori uso), ai Raee e la direttiva Sup prevede nuovi regimi di responsabilità estesa del produttore per tutti i prodotti di plastica monouso elencati nella parte E dell’allegato, inclusi salviette umidificate, palloncini e prodotti del tabacco.

Che cosa significa nella pratica?

Se ci riferiamo per esempio al mondo degli imballaggi, un’azienda produttrice o utilizzatrice deve versare il CAC, ovvero il contributo ambientale al Conai (il Consorzio Nazionale Imballaggi), che verrà in parte utilizzato per gestire i rifiuti che si andranno a produrre quando il prodotto arriverà alla fine della sua vita utile. La responsabilità estesa del produttore è nata per far sì che chi produce l’imballaggio si faccia carico del fine vita. Oggi sta creando pressioni positive affinché le aziende non solo gestiscano l'imballaggio a fine vita ma facciano in modo che sia riciclabile e torni quindi a essere materiale utile per altri cicli di utilizzo.

Qui si inserisce anche il discorso sull’importanza di sensibilizzare i consumatori e avere dei sistemi di etichettatura chiari per lo smaltimento dei prodotti, giusto?

Assolutamente. I consumatori svolgono un ruolo fondamentale e stanno già spingendo da tempo le aziende a ripensare i propri modelli di business in un’ottica più sostenibile. Giustamente hai parlato dell’importanza dell’etichettatura. Oggi, purtroppo, non ci facilita la vita. Le certificazioni esistenti, che sono espresse nelle etichette degli imballaggi, non permettono una facile, rapida e chiara comprensione delle modalità di smaltimento. Prendiamo l’esempio delle plastiche compostabili. Gli imballaggi realizzati in plastica compostabile, certificata tale dalla UNI EN 13432, possono inserire il marchio di compostabilità, dal marchio DIN Geprüft di DIN CERTCO (Germania) al marchio Ok Compost di TUV (Austria-Belgio). Tuttavia, sono efficaci tali marchi? Oltre a inserire la certificazione sulla compostabilità dell’oggetto, le aziende ci raccontano che devono aggiungere ulteriori descrizioni e fare uno sforzo comunicativo per arrivare al consumatore, affinché quest'ultimo adotti il giusto comportamento. Nell’ambito della direttiva Sup, e più in generale del pacchetto europeo sull’economia circolare, si sta lavorando sia a un'armonizzazione sia a un ampliamento delle informazioni che vanno riportate sulle etichette.