La guerra a Gaza è una bomba climatica: le emissioni sono pari a quelle di 33 Paesi

Secondo un nuovo studio, in soli due mesi di conflitto sono state emesse oltre 280mila tonnellate di CO2. Ricostruire la Striscia produrrà circa 30 mln di tonnellate di gas serra.
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Francesco Castagna 10 Gennaio 2024

Lontani da un territorio, ma allo stesso tempo così vicini per mano dei media. Gaza è un non-luogo, l'equazione tra un disastro e l'impossibilità di evitarlo. Gaza ora è la "Terra di nessuno" accanto a quella "promessa". Difficile immaginare che i territori bombardati da Israele sulla Striscia possano essere ricostruiti in breve tempo, in soli due mesi sono stati uccisi più di 20mila palestinesi e intere zone dei territori gazei sono devastate. Non c'è più nulla, solo macerie e senso di impotenza.

Il costo umano è altissimo, non solo per le innumerevoli perdite: la guerra a Gaza ha scaturito una vera e propria devastazione climatica. L'arsenale bellico decide le questioni tra due popoli; la Terra, invece, quelle di tutti. Un nuovo studio, pubblicato sulla piattaforma Social Science Research Network, dimostra come "le emissioni previste nei primi 60 giorni della guerra tra Israele e Gaza sono state superiori alle emissioni annuali di 20 singoli Paesi e territori".

 Le immagini sono la testimonianza di una geografia di un territorio che è profondamente cambiata: ospedali, strutture pubbliche, palazzi, infrastrutture. Non solo, le operazioni dell'esercito israeliano per raggiungere i tunnel dove si muove Hamas hanno impattato profondamente: con la distruzione della recinzione protettiva costruita da Israele negli anni, le missioni totali aumentano fino a superare quelle di 33 Paesi. Dove ormai non c'è più nulla, i costi di ricostruzione sono di gran lunga maggiori. Stando al report infatti, " La ricostruzione di Gaza comporterà una cifra totale di emissioni annuali superiore a quella di oltre 130 Paesi, equiparandola a quella della Nuova Zelanda".

La Palestina è un territorio che da già da anni subisce forti stress a causa del cambiamento climatico, legati alla mancanza di disponibilità idrica. A gravare la situazione, oltre al cambiamento climatico che presenta ogni anno estati sempre più aride e gli inverni meno piovosi degli ultimi decenni, le politiche di water grabbing messe in atto dal governo israeliano. Dopo aver occupato illegalmente le colonie in Cisgiordania, oltre al fiume Giordano, i coloni israeliani hanno cominciato a sottrarre acqua dall'unica fonte che rifornisce i palestinesi: la falda montana.

Amnesty International lo aveva denunciato già nel 2009, ignorata -purtroppo- dalla comunità internazionale: "Israele non permette il trasferimento di acqua della falda acquifera montana della Cisgiordania verso Gaza. I rigorosi divieti, imposti negli ultimi anni da Israele all’ingresso a Gaza di materiali e apparecchiature necessari per lo sviluppo e la riparazione di infrastrutture, hanno causato un ulteriore deterioramento dell’acqua e della situazione sanitaria, che a Gaza ha raggiunto un livello drammatico".

In una nostra intervista a Riccardo Noury, Portavoce Amnesty International Italia, ci aveva risposto che: "Il fatto di sottrarre risorse, come ad esempio la terra, e di negare una disponibilità adeguata di acqua fa parte in maniera evidente di una strategia che colpisce i diritti economici e sociali dei palestinesi. Quel documento del 2009 lo testimonia chiaramente, 14 anni fa c'era un rapporto di 80 a 20: l'80% della falda montana dei territori occupati veniva utilizzato da Israele, mentre ai palestinesi veniva lasciato solo il 20%. Il consumo di acqua dei palestinesi era al massimo di 20 litri al giorno in alcune aree, quando andava bene 60 litri al giorno, mentre agli israeliani spettavano 300, molti di più. I numeri parlano chiaro".