
Nei Paesi dell'Unione europea gli allevatori di bestiame hanno ricevuto finanziamenti pubblici 1.200 volte superiori a quelli desinati alle aziende che di occupano di plant based meat (ovvero le alternative vegetali alla carne) o di carne coltivata. Negli Stati Uniti, il valore complessivo dei fondi ricevuti dalla prima categoria è 800 volte superiore alla seconda.
Lo rivela uno studio, pubblicato sulla rivista One Earth, e condotto dal professor Eric Lambin e dalla professoressa Simona Vallone, della Stanford University, negli Stati Uniti.
A partire dall'analisi delle principali politiche agricole messe in atto dall'Ue e dagli Stati Uniti dal 2014 al 2020, gli autori della ricerca hanno stimato che l'ammontare del denaro pubblico speso per finanziare o incentivare le alternative a base vegetale alla carne è stato di soli 42 milioni di dollari (33 milioni di sterline).
Il totale dei fondi destinati al settore della plant based meat rappresenterebbe una porzione irrisoria rispetto ai soldi pubblici destinati a chi produce carne: esattamente lo 0,1% dei 35 miliardi di sterline spesi per carne e latticini.
Questi dati, osservano i ricercatori, mettono nero su bianco un problema evidente: la produzione di alternative alla carne riceve un supporto pressoché nullo dalle politiche statali. Tutto questo, a fronte e nonostante l'evidenza degli effetti che l'eccessivo consumo di carne e prodotti di origine animale implicaper l'ambiente.
La crisi climatica non può essere affrontata senza un ripensamento dello stile alimentare occidentale. La produzione di bestiame causa il 15% di tutte le emissioni globali di gas serra. Mangiare meno carne e latticini ridurrebbe non solo l'inquinamento sul fronte delle emissioni di CO2, ma avrebbe anche effetti positivi sull'uso della terra e dell'acqua. In una parola: l'impatto dell'uomo sul Pianeta.
Eppure questo necessario cambio di passo non sembra così urgente nei piani dei Paesi europei e statunitensi.
Lambin ha dichiarato: "Abbiamo scoperto che gli ostacoli più grandi alla diffusione delle tecnologie alternative sono legati alle politiche pubbliche che finanziano ancora massicciamente il sistema esistente, quando sappiamo che è davvero parte del problema in termini di cambiamento climatico, perdita di biodiversità e alcuni problemi di salute”.
In definitiva quello che hanno osservato i ricercatori è un interesse della classe politica, in Ue e Usa, a difendere il sistema precostituito, dominato dai grandi produttori di carne.
Lo si è visto, fanno notare i ricercatori, anche nell'indirizzo seguito da diversi Paesi nell'introduzione di norme molte restrittive in materia di etichettatura. Ad esempio, già nel 2017 l'Ue ha vietato termini come "latte " e "formaggio" per le alternative vegetali a questi prodotti. Ancora, una proposta statunitense vieterebbe la vendita di carni alternative a meno che l'etichetta del prodotto non includa la parola "imitazione".
In realtà, per avere la prova di quanto osservato in questo studio, almeno per quanto riguarda quest'ultimo punto, basta guarda agli ultimi sviluppi nella politica italiana. Solo a metà luglio è stato approvato al Senato il disegno di legge voluto dall'attuale governo che, oltre a vietare la produzione e l'importazione della carne coltivata in laboratorio, mette al bando l'uso della parola “carne” per tutti gli alimenti derivati da proteine vegetali e i mangimi prodotti in laboratorio, che riproducano nell'aspetto o nel sapore la "vera carne".