L’impatto ambientale dei campi sintetici: una seconda vita difficile (ma non impossibile)

Siamo abituati a vederli, a giocarci sopra ma non ci siamo mai chiesti quando possano durare e quale sia il loro destino una volta che vengono sostituiti. I campi sintetici, purtroppo, sono ancora lontani dal poter ottenere una seconda vita sostenibile. Eppure c’è chi sta provando a offrirgliela.
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Sara Del Dot 12 Febbraio 2020

Da diversi anni molti campi da gioco che vedi nei centri sportivi appaiono particolarmente perfetti. Un manto dal colore acceso e uniforme, perfettamente allineato, senza difetti. E il merito non è di un giardiniere particolarmente scrupoloso. Questa perfezione è dovuta al fatto che, in realtà, quel campo non è composto di erba vera, bensì è stato realizzato con diversi strati di materiale sintetico posti uno sopra l’altro, principalmente polietilene antiabrasivo, gomma e sabbia silicea.

Con queste componenti sono stati realizzati negli ultimi anni gran parte dei campi da calcio, tennis, rugby, hockey su prato e golf. Ricoprono quindi migliaia di metri quadrati l’uno. Il motivo per il quale si sia scelta la plastica rispetto ai morbidi fili d’erba è semplice e intuitivo: i campi sintetici sono più economici dal punto di vista della manutenzione e decisamente più semplici da gestire.

Tuttavia, un lato negativo c’è, esiste e rappresenta un bel problema a cui prima o poi bisognerà guardare in faccia. Si tratta dell’impatto ambientale di questi campi. Partiamo da una premessa positiva. La buona notizia che riguarda i campi sintetici, infatti, è che gran parte della loro realizzazione avviene grazie al riciclo degli pneumatici, che essendo fatti con materiale di altissima qualità consentono di essere recuperati e di andare a comporre altri oggetti come appunto il campo. Ogni anno, infatti, sono 500.000 le tonnellate di pneumatici fuori uso (PFU) che vengono utilizzati per la realizzazione di campi sintetici.

Devi sapere però che tutto questo, purtroppo, ha un costo ambientale non indifferente. Perché secondo l’assunto che “nulla si crea, nulla si distrugge e tutto si trasforma”, il materiale dello pneumatico anche se trasformato in qualcos’altro da qualche parte finisce non smette di inquinare.

Per fare un esempio concreto, dai campi sintetici ogni anno vengono rilasciate dalle 18.000 alle 72.000 tonnellate di microplastiche, che noi non vediamo ma che vengono diffuse nell’ambiente. E un problema ancora più grande arriva dopo, ovvero quando il campo deve essere tolto e smaltito per poi essere sostituito con un altro nuovo.

Da noi il problema ancora non si pone in modo deciso, dal momento che i nostri campi sono ancora relativamente nuovi (durano in media una decina di anni) e quindi il problema della gestione del rifiuto “manto sintetico” non si è ancora posto. Ma presto la questione si imporrà davanti ai nostri occhi, proprio come è accaduto in altre parti del mondo.

La difficoltà non sta tanto nel recupero del campo, che è sufficiente tagliare in strisce e arrotolare, ma nel riuscire in un secondo momento a separare le varie componenti di cui è composto per poterle avviare a nuova vita. Questo rappresenta un processo lungo e dispendioso che la maggior parte delle volte si conclude con l’abbandono del campo in discarica.

C’è chi, però, a trovare una soluzione ci ha provato e ci è riuscita. È il caso dell’azienda danese ReMatch, in grado di riciclare il 99% di un campo sintetico su scala industriale, separandone in modo efficace tutte le componenti (udite udite) senza l’utilizzo di acqua.