L’insostenibile pesantezza dello spreco alimentare vale in Italia più di 10 miliardi di euro l’anno

Mangiamo troppo o troppo poco, lo facciamo male e non seguiamo diete alimentari né corrette né sostenibili. Ma c’è di più, non ci rendiamo conto del fatto che se ci impegnassimo a contrastare lo spreco alimentare risparmieremmo all’anno mediamente più di 10 miliardi: l’equivalente di una manovra finanziaria. Ne abbiamo parlato con Andrea Segré, Agronomo ed economista italiano, professore di Politica agraria internazionale e comparata presso l’Università di Bologna, direttore scientifico dell’Osservatorio internazionale Waste Watcher su cibo e sostenibilità.
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Francesco Castagna 5 Febbraio 2023
Intervista a Prof. Andrea Segré Agronomo ed economista italiano, professore di Politica agraria internazionale e comparata presso l'Università di Bologna, direttore scientifico dell'Osservatorio internazionale Waste Watcher su cibo e sostenibilità

Ti sarai chiesto negli ultimi anni, preso anche tu dalla voglia di dare un contributo alla lotta al cambiamento climatico, come fare per ridurre in prima persona l'inquinamento.

Forse non sai che uno dei modi per farlo è impegnarsi in prima persona contro lo spreco alimentare. Infatti, lo spreco di cibo è causa di miliardi di tonnellate di gas serra che vengono emessi nell'atmosfera. Non solo, perché c'è anche un consumo di acqua pari a più di 150 miliardi di metri cubi. Sprecare cibo infatti non significa solo gettare via gli alimenti, ma anche non curarsi delle emissioni legate al trasporto di cibo, del consumo del suolo, dell'acqua e di tanti altri fattori.

Pensa che solo nel 2019 sono state sprecate 931 milioni tonnellate di cibo, secondo i report della FAO e dell'UNEP. Non c'è soltanto uno spreco nel consumo quindi, ma anche uno legato ai processi produttivi, con un sostanzioso impatto ambientale.

Se non sei ancora abbastanza convinto dei benefici che si otterrebbero grazie al contrasto allo spreco alimentare, ti dico che, secondo l'osservatorio Waste Watcher/Spreco Zero, lo spreco alimentare domestico in Italia vale 15,6 miliardi l’anno. Ciò equivale al valore di una manovra finanziaria, in pratica se tutti sprecassimo di meno otterremmo un risparmio notevole di soldi.

La tematica della lotta allo spreco alimentare è forse una di quelle più sottovalutate, forse perché richiederebbe lo sforzo di tutta la catena produttiva, ma è tra le azioni più importanti che dovremmo mettere in campo per raggiungere l'obiettivo 2 "Fame Zero" dell'Agenda Onu 2030, che ci chiede di porre fine alla fame, raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare l'alimentazione e promuovere l'agricoltura sostenibile.

Lotta alla fame, salute, nutrizione e spreco alimentare sono argomenti trasversali e interconnessi, che ci fanno capire come la salute ambientale sia sempre più collegata a quella fisica e, pensando più in grande, a un'idea di giustizia sociale.

La rete di recupero del cibo attualmente funziona solo per la distribuzione commerciale, quindi poco si può fare a livello domestico se ognuno di noi non si mette in prima linea. I ristoranti, i supermercati e i mercati contattano dei sistemi di smistamento degli alimenti a fini caritativi, che a loro volta lo consegnano alle organizzazioni no profit, che poi lo danno alle persone meno abbienti.

Andrea Segré, agronomo ed economista italiano, professore di Politica agraria internazionale e comparata presso l'Università di Bologna, direttore scientifico dell'Osservatorio internazionale Waste Watcher su cibo e sostenibilità, è da più di 20 anni che si occupa di sistemi di prevenzione e di contrasto allo spreco. Ha teorizzato principi come lo "ius soli", ovvero il diritto che ogni persona dovrebbe avere di poter accedere al cibo, e il "Recovery Fund", ovvero il rendere obbligatorio il recupero di cibo a fini caritativi.

Lo abbiamo raggiunto nel suo ufficio alla facoltà di Bologna per entrare nel merito dell'argomento, e abbiamo scoperto che i nostri sistemi alimentari sono vecchi, sbagliati e da ripensare in ottica di un futuro sostenibile e più giusto per la natura e per l'uomo.

Professor Segré, le Nazioni Unite avevano previsto da tempo il raggiungimento degli otto miliardi di esseri umani. Questo traguardo secondo lei può influenzare l'accesso al cibo di alcune popolazioni oppure mancano strutturalmente degli strumenti? 

Dobbiamo prendere atto che il mondo cresce, lo ha sempre fatto dal punto di vista demografico in modo veloce e diseguale. Alcune aree del pianeta che crescono maggiormente rispetto ad altre.

La questione del cibo e quindi della disponibilità degli alimenti in realtà non sarebbe un problema, perché già oggi ciò che viene prodotto dal punto di vista alimentare a livello globale è più che sufficiente per sfamare non solo la popolazione attuale, ma anche quella che ci sarà tra qualche decennio. Il problema da risolvere in realtà, non da oggi, è quello dell'accesso al cibo. Come c'è uno squilibrio di crescita demografico ce n'è un altro di questo tipo. Peraltro l'accesso al cibo è legato anche a un altro trend che è quello economico, perché uno degli elementi fondamentali per accedere al cibo è una disponibilità economica. Una parte rilevante della popolazione mondiale non ha una disponibilità economica sufficiente per garantirsi un approvvigionamento alimentare che consenta di vivere in modo adeguato.

La questione vera da risolvere quindi non è legata al numero della popolazione, quanto il rendere il cibo disponibile a tutti, garantire -se vogliamo metterla in termini legali- un diritto al cibo per tutti. Non è una mia scoperta,ma è il riconoscimento che troviamo già nella Dichiarazione dei Diritti Umani dell'ONU nel Dopoguerra, è un problema che ci siamo già posti. Il tema di fondo è: com'è che non ci siamo riusciti?

Perché una parte così rilevante della popolazione mondiale non ha accesso al cibo?

La FAO stima 862 milioni a livello globale in insicurezza alimentare, peraltro in crescita a causa pandemia, guerra e crisi che si susseguono. Dovremmo trovare il modo di mettere a terra il riconoscimento concreto e reale di questo diritto.

Nel suo libro "L'insostenibile pesantezza dello spreco alimentare" lei affronta in un capitolo le problematiche della guerra russo-ucraina, una crisi geopolitica dalla quale sono derivate altre crisi, quella energetica e quella alimentare. Possiamo dire quindi che oltre a un'indipendenza dal punto di vista energetico dovremmo ricercarne una di tipo alimentare?

La crisi russo-ucraina è uno degli ultimi esempi dello squilibrio determinato da una guerra, che ci dovrebbe portare a una riflessione e a un'azione per capire anche i termini di sovranità e sovranismo alimentare. Basta andare indietro di circa dieci anni per osservare la stessa situazione con le "primavere arabe", che nascono proprio per la rivolta delle popolazioni per l'innalzamento del prezzo del pane.

Dovremmo cercare di capire come rendere meno dipendenti certe nazioni che vengono di fatto legate apposta. Non è un caso che i Paesi che dipendono dal grano di quell'area, combinato fra l'Ucraina e la Russia, all'inizio non abbiano firmato la dichiarazione ONU contro il conflitto e dalla parte dell'Ucraina.

Solo per fare per un esempio su quanto era utile, nell'ottica della guerra e di chi l'ha provocata, mantenere nei silos i milioni di tonnellate di grano ucraino. Non solo perché tenendoli pieni poi non si sarebbero svuotati e quindi riempiti nuovamente con il raccolto successivo, ma è stato anche impedito di fatto l'export in aree totalmente dipendenti. Ricordo solo un dato che mi ha colpito molto quando stavo facendo degli approfondimenti sulla questione: il Libano è dipendente da quel grano per il 94%, è del tutto evidente che sono Paesi totalmente vincolati e legati.

Questo però non ci deve portare a pensare che la soluzione sia il sovranismo o l'autarchia. Anche in Italia è venuto fuori questo tema, come se noi fossimo dipendenti da tutto. Non è così. Se prendiamo il consumo del tipo di grano che a noi serve per fare la pasta, noi siamo autosufficienti per una percentuale minima. Se vogliamo mangiare la pasta, ma soprattutto se vogliamo esportarla -perché è lì che c'è il valore aggiunto- non possiamo pensare di auto-produrci quel 60% che ci manca.

Il concetto di sovranità alimentare nasce a metà degli anni '90 come movimento fatto da contadini e in generale dal Sud del mondo che contesta la globalizzazione – Andra Segré

Il concetto di sovranità alimentare nasce a metà degli anni '90 come movimento fatto da contadini e in generale dal Sud del mondo che contesta la globalizzazione. Produrre, consumare e decidere per se stessi sono passaggi che rientrano a pieno in questo discorso.

Da qui all'autarchia però il passo è veramente lungo. Serve una maggiore attenzione a livello locale, senza escludere gli scambi.

In quanto a misure contro lo spreco alimentare la Francia ha introdotto il reato alimentare, mentre la Cina ha deciso di tassare lo spreco. Quale strategia dovrebbe adottare l'Italia? Esiste una via di mezzo?

Noi abbiamo iniziato a lavorare sul recupero di cibo nella grande distribuzione a fini caritativi a fine anni '90. Avevamo già attivato il recupero a fini solidali con un incentivo, cioè scalando sostanzialmente ciò che recuperi dalla tassa sui rifiuti a metà degli anni 2000. La prima città dove abbiamo sperimentato questo incentivo al recupero è Bologna, tramite uno sconto sulla tassa sui rifiuti. La legge italiana ha preso questo approccio, che a mio avviso era e rimane molto condivisibile.

In realtà la legge 166 del 2016, che ha questo approccio, oggi forse dovrebbe essere modificata. La sua adozione è su base volontaria e non tutti la applicano. Non tutti i supermercati e non in tutte le città viene adottata. Abbiamo proposto diversi anni fa di imitare il modello francese, che rende il recupero a fini caritativi obbligatorio sopra una certa superficie. 

L'abbiamo chiamato "Recovery Food" e l'abbiamo proposto con la campagna "Spreco Zero", durante la giornata nazionale di prevenzione dello spreco alimentare del 2021, chiedendo al Parlamento di modificare la legge italiana in tal senso. L'anno scorso la Cina ha deciso addirittura di tassare e/o vietare ogni forma di abbondanza nei piatti.

Se facciamo una gerarchia delle misure da mettere in campo, il primo impegno è senza dubbio la prevenzione. Il grosso dello spreco alimentare si concentra nelle nostre case. In tutti i Paesi che abbiamo preso in considerazione quando abbiamo realizzato la nostra analisi con l'osservatorio interazione "Waste Watcher" viene fuori che fino al 75% di ciò che si getta via dal campo alla tavola sta in casa nostra. Questi alimenti non si possono recuperare, finiscono nel bidone della spazzatura, se si è bravi va nell'umido.

Bisogna fare prevenzione, tramite le campagne d'informazione o app come quella che stiamo per lanciare, "lo Sprecometro". Dobbiamo poi capire perché sprechiamo, perché la maggior parte delle volte sono comportamenti inconsapevoli. A mio parere bisognerebbe partire dall'inserimento di un breve emendamento alla legge 166, in cui scriverei "da oggi il recupero è obbligatorio".

Lei ha parlato nel suo libro di "dieci miliardi e mezzo di risorse ricavabili dal contrasto allo spreco alimentare". Quasi una manovra finanziaria, secondo lei la classe politica ne è a conoscenza? Ma soprattutto, lo sono gli italiani?

Onestamente posso dire che noi da anni conduciamo e pubblichiamo ricerche, facciamo degli eventi di divulgazione. Queste cifre sono assolutamente note, sinceramente non so poi quanto arrivano all'opinione pubblica e alla classe politica. I dieci miliardi sono il valore economico dello spreco domestico, quando noi facciamo l'indagine con Waste Watcher, e viene fuori un certo numero di grammi pro capite di cibo ancora buono che si getta via, noi lo trasformiamo in euro, in acqua, in energia e in impronta carbonica.

Questi dati per la loro portata dovrebbero far percepire alla classe politica che lo spreco alimentare è una materia sulla quale bisogna intervenire.

Le indagini che facciamo sono finanziate da fondi europei, ma quando viene fuori che il valore medio del prodotto sprecato vale 10-11 miliardi, che il costo energetico vale 9 miliardi allora bisognerebbe interrogarsi sui principi a cui ci ispiriamo.

Secondo lei perché non riusciamo a far passare socialmente parlando la "family bag" come qualcosa di positivo? 

È un fattore culturale. Io ho studiato negli Stati Uniti ormai tanti anni fa, e lì il "doggy bag"è assolutamente normale. Io ricordo addirittura che 30 anni fa negli USA la gente al termine del pasto al ristorante si portava via il vino, ne consumava la quantità che voleva e poi se lo portava a casa.

È una questione di cultura, tornando in Italia, abbiamo proposto il "family bag" perché il "doggy bag" dava l'idea di portarsi via degli avanzi per il cane. Non è nella nostra cultura né di consumatori e né dei ristoratori, che dovrebbero dirti che se non finisci la tua porzione hai a disposizione una confezione per portartela a casa.

Noi abbiamo fatto una mini-indagine per capire se il vino una volta aperto e portato a casa avesse dei problemi, e abbiamo riscontrato che non è assolutamente così.

Il vino che hai bevuto il giorno prima potrebbe essere un po' mosso e quindi addirittura migliore. È una questione che entrerà pian pianino nella nostra cultura, ma guardando la ripartizione dello spreco, oggettivamente al Sud si spreca di più.

C'è ancora una tendenza all'abbondanza, a cucinare e offrire di più. Questa cultura nostrana non va demonizzata, ma progressivamente deve arrivarci anche l'idea che buttare via del cibo equivale a rifiutare dei pezzi di natura, perché per creare quel prodotto io ho usato la natura stessa appunto: l'acqua, il suolo, l'energia, i fertilizzanti etc.

La leva sulla quale stiamo agendo da qualche anno, a partire dal libro che ho scritto "Spreco Zero" che è una sorta di manuale di economia domestica, è proprio il risparmio. Se io getto via tot chili di alimenti sto sprecando degli euro. Quando abbiamo pubblicato il libro nel 2019 si parlava circa di 500 euro a famiglia, che adesso sono aumentati.

"Sprecometro" misurerà proprio quanto ogni persona getta via e lo trasforma in euro, in impronta idrica e carbonica. Dopodiché manda dei contenuti in cui questo sistema ti fa notare dove sbagli, ad esempio ti dà dei consigli sulla lista della spesa per farti comprare solo ciò che ti serve.

Noi puntiamo a sensibilizzare le persone proprio partendo dalla loro disponibilità economica, siamo in crisi, c'è un'inflazione alimentare pazzesca e questo fenomeno porta tutti -specialmente i più poveri- ad abbassare la qualità del cibo, non solo dal punto di vista qualitativo che quantitativo.

Lo "Ius Cibi", ovvero il diritto di accesso al cibo, è una battaglia che lei porta avanti da anni. Ci spiega di che si tratta e come si tradurrebbe in azioni concrete nel nostro Paese? 

Sono arrivato allo "ius cibi", ovvero a una cittadinanza alimentare, proprio dopo il lavoro sul campo guardando lo spreco, che non è soltanto quello che getto via in eccesso ma c'è anche lo spreco "calorico" o "metabolico", cioè quando si mangia troppo e male. Soprattutto i più poveri, che cercano il costo della caloria più bassa, in realtà mangiano male, si ammalano, e questo ha un costo sulla salute.

Ho cercato quindi di capire se ci fosse un modo per spiegare e realizzare un equilibrio alimentare che vale per tutti, ricchi e poveri, e l'ho ritrovato nel diritto al cibo. Tale concetto per altro è già ben catalogato a partire dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. L'Onu ci ha lavorato per anni e dal 2000 è possibile trovare delle soluzioni sempre più accurate, solo che rimane carta sostanzialmente.

A partire dalle comunità locali, come accade con il lavoro che stiamo facendo a Bologna anche nel mio ruolo di Consigliere speciale del sindaco per le politiche alimentari, bisogna ritrovare questo equilibro partendo dal riconoscimento di questo diritto di alimentarsi in modo adeguato, sufficiente e nutriente.

È necessario che questo principio sia riconosciuto in un regolamento comunale, come se fosse un diritto derivato, e poi mettere in campo una serie di azioni a partire dal recupero del cibo:

  • promozione di programmi di educazione alimentare nelle scuole
  • favorire l'accorciamento della filiera
  • trasparenza sui prezzi di produzione
  • favorire forme di agricoltura urbana e periurbana che avvicinino i consumatori alla produzione

Pensare il diritto al cibo a livello globale è troppo difficile, a livello locale la scommessa è realizzarlo a livello locale e poi moltiplicare le esperienze positive. Si tratta di un approccio diverso rispetto alla globalizzazione.

Secondo lei una soluzione potrebbe essere tornare a comprare più prodotti sfusi?

In realtà dipende, pensare di acquistare tutti i prodotti sfusi porterebbe a uno spreco enorme. L'imballaggio serve a trasportare e preservare i prodotti, dipende da qual è l'imballaggio. Il tema non è sfuso, non sfuso, imballato o non imballato.

Bisogna comprare sfuso solo quello che serve. Non deve passare l'idea che l'imballaggio sia una cosa necessariamente negativa, se avessimo tutto sfuso avremmo uno spreco pazzesco.

Bisogna pensare il mondo con equilibrio e complementarietà, cercando di favorire ciò che funziona e sfavorire ciò che non funziona. Non c'è un modello unico, perché non sfameremmo tutto il mondo con la produzione biologica, ma nemmeno soltanto con quella tecnologica.

Come si comunica l'importanza della Dieta Mediterranea? Molti ritengono che sia costosa, lei ha dimostrato più volte che non è così. Come fare quindi?

Anche qui è una questione di educazione alimentare e di scelte. Io pensavo, come tutti in realtà, che la dieta mediterranea fosse qualcosa di fantastico ma troppo costosa, in realtà abbiamo fatto diverse indagini -che ho anche ripetuto perché non ci credevo- e guardando alle piramidi nutrizionali è venuto fuori in modo molto chiaro che se sai scegliere il prodotto e sai come cucinarlo, seguire quella piramide nutrizionale che riporta alla dieta mediterranea costa abbastanza di meno.

Oltre a un discorso di salute e ambientale si aggiunge un terzo motivo che attualmente è quello più sentito: se mangi bene – perché dieta mediterranea è sinonimo di qualità- spendi anche di meno.