L’universo delle malattie rare: nella storia di Fabio, tutta l’importanza della ricerca

Una diagnosi inaspettata, la difficoltà di trovare risposte e il senso di smarrimento. E poi i centri specializzati che diventano punti di riferimento, medici e infermieri con cui si costruiscono vere e proprie relazioni che vanno oltre la terapia e infine le opportunità scientifiche che la ricerca sulle malattie rare offre a tutti. Nella Giornata delle Mattie Rare, la dottoressa Francesca Ferrua, dell’Istituto SR-Tiget, ci racconta una storia che racchiude in sé tutte queste cose.
Entra nel nuovo canale WhatsApp di Ohga
Giulia Dallagiovanna 28 Febbraio 2022
* ultima modifica il 28/02/2022
Intervista alla Dott.ssa Francesca Ferrua Medico pediatra dell’Unità di immunoematologia pediatrica dell’IRCCS Ospedale San Raffaele

"Dopo una vita di restrizioni, quando tornano per i controlli di follow up tempo dopo il trattamento con la terapia genicaquesti ragazzi mi chiedono se possono iscriversi a kung fu, karate, rugby. Non a sport più tranquilli, come il nuoto. È bello sapere che nella maggior parte dei casi la risposta è sì". Sorride la dottoressa Francesca Ferrua, medico pediatra dell’Unità di immunoematologia pediatrica dell’IRCCS Ospedale San Raffaele. Si percepisce persino attraverso il telefono. I bambini di cui parla sono quelli in cura all'Istituto San Raffaele Telethon per la Terapia Genica (SR – Tiget) per una malattia rara. Patologie che spesso finiscono in secondo piano, perché i pazienti sono pochi. Talmente pochi che si fatica persino a trovare un numero sufficiente di campioni su cui iniziare uno studio. Così i centri che le trattano diventano punti di riferimento fondamentali per le famiglie, luoghi dove possono quanto meno provare a sperare. E chi ci lavora non è più solo uno specialista in camice, ma una persona con la quale si condivide un lungo percorso. "Anche se un bambino è affetto da una patologia che colpisce una persona su un milione, per i suoi genitori rappresenterà il 100% dei casi. È loro figlio, giustamente per loro contano poco statistiche e percentuali".

La dottoressa Francesca Ferrua, medico pediatra dell’Unità di immunoematologia pediatrica dell’IRCCS Ospedale San Raffaele. Credits photos: Ufficio stampa San Raffaele

Fabio, ad esempio, aveva poco più di tre mesi quando ha scoperto di essere quell'uno ogni 250mila neonati maschi a dover fare i conti con la sindrome di Wiskott-Aldrich, un'immunodeficienza primitiva associata a una severa piastrinopenia. L'alterazione del gene WAS, che codifica per la proteina WASP, interferisce con il funzionamento di piastrine e sistema immunitario. Significa che Fabio, oltre a un'aumentata predisposizione a sviluppare infezioni frequenti e severe, aveva anche un elevato rischio di sanguinamento: in questi casi è sufficiente un piccolo trauma, come un urto contro un mobile mentre si gattona, per riportare ematomi molto estesi ed emorragie potenzialmente letali. Sanguinamenti si possono poi verificare a livello cerebrale o nel tratto gastroenterico, con diarree ematiche, che possono sfociare in anemie severe con necessità di trasfusioni e ricoveri frequenti. "Sono bambini che devono essere costantemente protetti, non è una vita semplice".

Nato da poco, Fabio si è ritrovato in terapia intensiva pediatrica per quella che inizialmente sembrava essere un'infezione severa, con febbre alta associata a diversi altri sintomi tra cui un'eruzione cutanea e anemia. Un
esordio particolarmente precoce e severo per la Sindrome di Wiskott-Aldrich, dovuto principalmente a una profonda immunodisregolazione. Il sistema immunitario del bambino non solo non riusciva a combattere i patogeni, ma si attivava senza controllo in risposta a stimoli nei confronti dei quali non avrebbe dovuto reagire. Il risultato era uno stato di infiammazione severa che non accennava a diminuire. "I colleghi di Trieste sono riusciti a fare una diagnosi molto precoce che non era per nulla scontata. Inoltre l'infiammazione è stata difficile da gestire: le terapie di prima linea che si utilizzano in questi casi, ovvero i corticosteroidi, non hanno funzionato. È stato quindi somministrato un farmaco che avevamo già utilizzato in precedenza per un caso simile. E ha avuto successo", spiega la dottoressa. Questo ha permesso la stabilizzazione e il graduale miglioramento delle condizioni cliniche di Fabio, in modo tale che potesse viaggiare fino a Milano, dove è arrivato a marzo 2019.

Il trattamento di prima scelta per la sindrome di Wiskott-Aldrich è il trapianto di midollo osseo da donatore familiare compatibile. Altrimenti, si procede con la ricerca di un donatore dal registro internazionale. Ma purtroppo non sempre se ne trova uno disponibile e non dobbiamo dimenticare che stiamo parlando di un intervento non libero da rischi. Da circa 12 anni esiste, però, una valida alternativa: la terapia genica. Si utilizzano cellule staminali del paziente stesso, nelle quali viene corretto il difetto genetico, permettendo quindi la ricostituzione di un sistema immunitario e di piastrine funzionanti. "È una terapia ancora sperimentale, ma ci auguriamo che presto possa diventare un farmaco registrato, disponibile per tutti i pazienti che ne hanno bisogno. Fabio è stato inviato al nostro centro proprio per valutare la possibilità di trattarlo con la terapia genica. Abbiamo aspettato che le sue condizioni generali e il suo peso fossero adeguati, e a luglio 2019 abbiamo iniziato il percorso verso il trattamento vero e proprio".

Ad oggi, il trattamento si è rivelato efficace. Questo però non significa che il percorso di cura sia stato semplice. Tra complicanze e successi, come ultima batosta a marzo 2020 è arrivato persino il Covid. Per fortuna, sia Fabio che sua madre hanno avuto pochi sintomi, ma non era scontato. "All'inizio eravamo tutti molto spaventati, non sapevamo cosa sarebbe successo. Medici, infermieri e famiglie diventano una squadra. ‘Giochiamo' insieme, per arrivare alla vittoria che è la cura del paziente. Nessuno è in secondo piano, tutti hanno un ruolo importante. E quando si crea questa sinergia si affrontano meglio anche i momenti più difficili".

I genitori fanno rete tra loro e quando mettono piede per la prima volta all'Istituto, sono già piuttosto informati. Conoscono la diagnosi del proprio figlio e sanno chi si troveranno davanti. "Mi ricordo, ad esempio, una famiglia americana di un bambino affetto da Ada-Scid, un'altra severa immunodeficienza primitiva. Io ero ancora una studentessa e queste persone erano arrivate in Italia per incontrare i professori Alessandro Aiuti e Maria Grazia Roncarolo, che avrebbero poi preso in cura il figlio. Sono entrati nello studio, si sono seduti e il padre ha detto: ‘non vedevo l'ora di conoscervi, per me siete come delle rockstar'".

Si costruisce un universo parallelo, una bolla in cui si formano relazioni e in cui ci si sente presi in considerazione anche quando, purtroppo, bisogna accettare che non esista ancora una cura adatta a quel paziente. Se invece la terapia esiste ha successo, si comincia con i follow-up e con la vita oltre la malattia. Le famiglie mandano foto. Le vacanze, la laurea, la patente. "Quando arriva la foto della patente della moto, mi inquieto sempre un po'", scherza la dottoressa Ferrua.

Fabio oggi ha tre anni e mezzo e sta bene. Ha potuto sospendere le profilassi anti-infettive, iniziare i vaccini e frequentare la scuola materna. Hanno fatto un viaggio tutti insieme e festeggiato il compleanno assieme agli amici. "Mi hanno detto che è un piccolo terremoto – ci racconta la dottoressa. – A noi possono sembrare cose da poco, ma per questa famiglia non erano per niente scontate. Sono momenti di rinascita".

Una malattia è rara soprattutto per chi non la vive. Per chi non si deve scontrare ogni giorno con la difficoltà di trovare risposte, con il rischio che non ci siano farmaci adatti, con la consapevolezza che non è semplice trovare fondi per la ricerca, con la sensazione di essere finiti un po' in fondo nella lista delle priorità. Vista più da vicino, una malattia rara diventa un universo che racchiude in sè relazioni, storie e opportunità scientifiche: "Non dobbiamo dimenticare che la ricerca sulle malattie rare ci ha permesso di sviluppare tecnologie che poi si sono rivelate utili anche per trattare patologie più comuni. Come la terapia genica, ad esempio. Ci hanno permesso di scoprire approcci terapeutici che prima non erano noti. Hanno aperto la strada".

Le informazioni fornite su www.ohga.it sono progettate per integrare, non sostituire, la relazione tra un paziente e il proprio medico.