Come reagiresti se ti dicessi che quello che ti hanno venduto per anni come prodotto biodegradabile, in grado di decomporsi nell'umido, in realtà finisce in discarica o negli inceneritori?
Sto parlando della plastica compostabile, un prodotto che ha rappresentato una grande speranza come alternativa alla plastica monouso da fonti fossili, tanto che c'era stato detto di gettarlo direttamente nell'umido. E invece non sarebbe così, e il perché non è proprio immediato da immaginare: ecco perché ci ha pensato l'Unità investigativa di Greenpeace Italia. L'indagine "Altro che compost!" mostra come l'Italia non abbia gli impianti adatti per smaltire questo tipo di plastica e perciò per farlo deve ricorrere alle discariche o agli inceneritori. Secondo i dati del Catasto rifiuti di ISPRA infatti "il 63% della frazione organica è inviato a impianti che difficilmente riescono a degradare le plastiche compostabili, che quindi finiscono per essere scartate".
Quei pochi impianti di compostaggio dotati di tecnologie moderne non sono in grado di lavorare con le tempistiche adatte per smaltire le bioplastiche, e perciò non riescono a trasformarla in compost. Così, gli investigatori dell'Ong hanno intervistato il personale tecnico dei laboratori e numerosi imprenditori del settore.
Quello che hanno scoperto è che c'è una grande differenza tra le condizioni in cui vengono presentati gli impianti, nel momento in cui devono essere sottoposti ai test per ottenere il certificato di compostabilità, e quelle in cui operano effettivamente.
In Italia, seguendo la direttiva europea sulle plastiche monouso, è stato vietato a partire da gennaio 2022 l'uso delle plastiche monouso. Ma stando a questi dati, a cosa servirebbe un provvedimento del genere senza una revisione degli impianti di smaltimento? Ma soprattutto, senza impianti adatti, sembrerebbero apparentemente inutili anche tutte le certificazioni riconosciute dal nostro Paese perché la circolarità verrebbe a mancare.
Quali caratteristiche dovrebbero avere i prodotti in plastica per essere certificati come biodegradabili e compostabili? Secondo il report Greenpeace per ottenere le certificazioni come biodegradabile e compostabile, un materiale deve avere alcune specifiche caratteristiche:
Se risponde a queste caratteristiche, il materiale viene certificato con il marchio "Ok Compost" o "Compostabile Cic". Purtroppo si scopre dal documento che l'Italia ha finanziato, in passato le aziende, incoraggiandole ad abbandonare la produzione di plastica monouso per passare alla plastica compostabile. L'errore però sta nell'averlo fatto senza discrezione, non considerando i casi in cui questi prodotti possono offrire dei benefici effettivi dal punto di vista ambientale. Secondo uno studio recente condotto dall’Hamburg Institute of International Economics infatti, si scopre per la prima volta una cosa senza precedenti: i prodotti in plastica biodegradabile da coltivazioni come il mais e la canna da zucchero usati per la produzione dei prodotti monouso compostabili in commercio hanno impatti ambientali (incluso il contributo ai cambiamenti climatici) superiori ai rispettivi prodotti in plastica da fonti fossili. Questo avviene a causa dei consumi di energia e delle emissioni legate alla produzione agricola.
Ma, come specifica il report, l'indagine "non ha lo scopo di redigere una valutazione sistemica degli impatti ambientali del monouso in plastica compostabile", ma di concentrarsi sulla situazione italiana. Pur riuscendo ad adeguare gli impianti o ad aggiornare lo standard dei prodotti stessi "il riciclo organico delle plastiche compostabili non sarebbe in ogni caso sufficiente per compensare gli impatti ambientali e il consumo di risorse legati alle fasi a monte della filiera".
Resta quindi un'unica conclusione: la soluzione di sostituire i prodotti in plastica monouso da fonti fossili con quelli biodegradabili non è la vera soluzione, ma bisognerebbe ridurre la produzione e il consumo di materiali monouso.
Ti starai chiedendo quindi cosa possiamo fare, o se c'è qualcosa che noi singoli possiamo effettivamente fare. Per esempio, sapevi che quando butti la plastica compostabile nell'umido dovresti tagliarla in piccoli pezzetti in modo da renderla effettivamente compostabile secondo i test di laboratorio? Per far sì che i laboratori la possano analizzare la plastica compostabile dovrebbe costituire l'1% del rifiuto umido. A confermarlo è anche Utilitalia, federazione che riunisce le aziende operanti nei servizi pubblici della gestione di rifiuti, acqua, ambiente, energia elettrica e gas: "Gli impianti oggi esistenti sono stati progettati per trattare prevalentemente rifiuti biodegradabili di cucine e mense o di giardini e parchi; non certo bioplastiche”.
E per esempio, sapevi che in realtà gli altri Paesi dell'Unione europea, quando hanno vietato la plastica monouso, hanno incluso anche quella compostabile?
Negli altri Paesi europei infatti i cittadini hanno l'abitudine di buttare la plastica compostabile nell'indifferenziato, mentre in Italia questo materiale finisce nell'umido. Questo perché viene fatto credere ai cittadini che i rifiuti compostabili non abbiano un impatto sull'ambiente, ma non è così. In Italia, secondo il direttore di Utilitalia Luca Mariotto, meno della metà degli impianti riescono a trattare la plastica compostabile, e di questo la legge non ne avrebbe tenuto conto. Nella Direttiva comunitaria infatti le plastiche compostabili sono trattate allo stesso livello di quelle tradizionali, ma l'Italia ha deciso di fare un'eccezione. Quello della plastica compostabile è un settore che negli ultimi anni è cresciuto sia per addetti ai lavori (2.775, +4,8%13) sia per fatturato (+9,7%14), per un volume d'affari di 815 milioni di euro15.
Quale conclusione quindi? Invece che "fare di testa nostra", come sottolinea l’accademico dell’Università di Firenze Ugo Bardi "basterebbe rispettare la direttiva UE".