Marco Belluzzo e la sua idea imprenditoriale nata tra i banchi di scuola: un brand di moda sostenibile

Un marchio di abbigliamento ecologico e sostenibile dato “per caso” in una classe di quarta superiore a Trieste, a cui però Marco Belluzzo ha deciso di dare vita davvero, creando una piccola azienda che oggi spera possa contribuire allo sviluppo di un mondo più giusto.
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Sara Del Dot 4 Luglio 2019

Ha soltanto 20 anni Marco Belluzzo, e ne aveva appena 17 quando ha deciso di provare a lanciare una vera e propria attività immergendosi nel mondo della moda sostenibile. Oggi la sua linea di abiti, che ha chiamato Kibou, “speranza” in giapponese, è una vera e propria azienda ecologica. E nonostante la sua ancora giovane età, Marco punta a crescere sempre di più, per lasciare un piccolo segno in un mondo che cambia e della cui rivoluzione sostenibile ha deciso di far parte.

Marco, come è iniziata questa tua avventura nel mondo della moda sostenibile?

È iniziato tutto alle superiori. Ho frequentato l’istituto tecnico Deledda di Trieste scegliendo un indirizzo strettamente ambientale. Quindi molte delle materie che studiavo riguardavano proprio l’aspetto ambientale delle varie discipline, come ad esempio chimica ambientale, tecnologia ambientale, lo studio dei materiali biologici… Una volta arrivato al quarto anno di liceo ho pensato che alla maturità mi sarebbe piaciuto presentare qualcosa di un po’ diverso dal solito. Ho quindi iniziato a guardarmi intorno e ho cominciato ad approfondire il tema dell’abbigliamento biologico e di tutte le filiere che lo coinvolgono. Ricordo di non aver trovato molto a riguardo, c’erano ancora poche aziende che si occupavano di materiali come il cotone biologico. Allora ho deciso di provare a portare agli esami una start up di abiti ecologici.

Come ti sei mosso?

Ho impiegato almeno un anno e mezzo a capire come lanciare l’attività, creare e registrare il marchio, costruire il sito web. Un anno e mezzo giusto per arrivare alla maturità presentando il mio piccolo progetto imprenditoriale. Ai professori è piaciuta molto la mia idea, così, dato che mi ero già impegnato molto per realizzarla, ho pensato di provare a lanciarla e mettermi in gioco seriamente, dato che era nato tutto un po’ casualmente. A gennaio dell’anno successivo è ufficialmente nata Kibou e ora sono online da circa un anno e mezzo.

Come funziona la produzione di Kibou?

Il cotone biologico è il nostro prodotto principale, ma non solo. Tutta la plastica che usiamo deriva da una filiera di poliestere riciclato. Abbiamo dei fornitori, in Belgio, a cui ordiniamo i prodotti ecologici. Loro hanno tutte le certificazioni che testimoniano il fatto che nelle loro produzioni non c’è impatto ambientale e che il personale non viene sfruttato. Da loro acquisto gli stock di camicie e magliette, le porto in Italia dove faccio inserire le stampe, che sono fatte in serigrafia con colori ad acqua, e poi da Trieste, dove vivo, mi occupo di gestire gli ordini, quindi faccio spedizione e controllo qualità.

Una filiera a bassissimo impatto ambientale, insomma.

Sì, la mia idea era quella di creare una filiera produttiva che fosse tutta sostenibile, dall’inizio alla fine. In questo ho coinvolto anche il packaging, per realizzare il quale utilizzo cartone proveniente dalla filiera di recupero della carta, e addirittura gli adesivi che dò in omaggio, che provengono da un’azienda che si occupa di riciclare materiali plastici. Non volevo che il carattere sostenibile si concentrasse solo sul singolo prodotto, ma volevo che investisse l’intero processo produttivo.

Sull’etichetta dei tuoi prodotti è presente il marchio “proudly made in Bangladesh”. Cosa significa?

Il marchio indica che i tessuti sono realizzati in Bangladesh ma “con onore”. È un modo per risollevare la reputazione del Paese da semplice luogo di sfruttamento e produzione di fast fashion da parte delle multinazionali.

Tu sei molto giovane e molto giovane è anche la tua start up. Come è andato questo primo anno e mezzo di attività?

Posso dire di aver avuto molte soddisfazioni, che poi sono l’elemento chiave che ti permette di andare avanti a testa alta. Sono stato contattato da Legambiente, ho partecipato ad alcuni eventi, mi chiamano per fare interviste… Questo per me è molto bello, perché significa che la gente mi trova e quindi il mio progetto sta funzionando. Ma sono anche consapevole che c’è bisogno di tempo per creare una propria credibilità. A volte mi fermo e mi dico che ho solo vent’anni e ho già realizzato tutto questo, per me è già tantissimo. Mi dà la forza di proseguire per il mio percorso.

Cosa significa Kibou, il nome del marchio?

Il termine Kibou significa speranza in giapponese. Per me, è la speranza di un mondo migliore e di poter contribuire a realizzarlo. Per quanto riguarda il simbolo, l’aquila ha un significato di lungimiranza e aspettative elevate.

E dal futuro cosa ti aspetti?

Per ora, a livello di obiettivi aziendali punterò molto sulla pubblicità, sul marketing, sul farmi conoscere. Il mio sogno, adesso, è riuscire a fare quel piccolo salto di qualità che possa portare le persone a guardami in un altro modo, non solo come la piccola start up appena nata. Mi piacerebbe poter dimostrare che ho fatto qualcosa di interessante, qualcosa che può lasciare il segno. La mia intenzione non è riuscire a cambiare il mondo. Per adesso, mi limito a voler cambiare me stesso e a provare a convincere le persone a cambiare anche loro.