Perché non basta aumentare il numero di aree marine protette per proteggere i mari italiani

Le aree marine protette, o AMP, sono zone marine circoscritte di fondamentale importanza per il mantenimento della biodiversità. In Italia ne sono 29, ma è un numero sufficiente per garantire la protezione dei nostri mari?
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Filippo Piluso 28 Agosto 2024

Si parla sempre più spesso di come l’Italia dovrebbe aumentare il numero di aree marine protette per aumentare la protezione dei nostri mari, in un periodo sempre più disastroso per il nostro Mare Mediterraneo, tra un surriscaldamento senza equali, specie aliene, boom algali, crisi del pescato e perdita di biodiversità, anche e, soprattutto, per l’impegno preso nell’ultima COP 15 a Montreal sulla biodiversità lo scorso anno, di proteggere il 30% del territorio e dei mari entro il 2030.

Un obiettivo non impossibile per il nostro paese, ma nemmeno eccessivamente alla portata, visto che la percentuale di zona a terra protetta è uguale al 21,68% del territorio italiano e la parte di acque territoriali e ZPE (cioè Zona di Protezione Ecologica) italiane protette è uguale all’11,62% del totale.

Servirebbe, quindi, per raggiungere l’obiettivo del 30% colmare uno scarto di un ulteriore 18% circa di superficie marina da sottoporre a tutela (pari a circa 6.600.000 ettari) e di un 8% di superficie terrestre (pari a circa 2.500.000 ettari), cifre non enormi, ma difficili da raggiungere in questo arco temporale, se non vi fosse un’accelerazione di trend rispetto agli anni precedenti. Infatti, negli ultimi 12 anni la percentuale di aree marine protette nel nostro territorio è aumentato soltanto di poco più che di un punto percentuale e ancora meno la parte di zona a terra.

Ma siamo sicuri che questo sia l’unico problema? Ossia, è sufficiente aumentare a dismisura il numero di zone protette per garantire un livello di conservazione o protezione della natura maggiore rispetto a quello che conosciamo oggi?

I vantaggi delle Aree marine protette

Di base, l’istituzione di Aree marine protette ha dimostrato avere numerosi vantaggi.

In prima battuta, il ruolo da esse svolto nella conservazione della biodiversità è centrale per permettere a una determinata specie in declino di rigenerarsi, soprattutto se parliamo di specie sovra-pescate, dal momento che le attività di pesca sono limitate all’interno dell’area e, in alcuni casi, interdette completamente, svolgendo un ruolo di vivaio, di asilo nido per le specie.

Poi, possono essere determinanti nel sequestro di anidride carbonica, essendo protette maggiormente piante come la posidonia oceanica all’interno della stessa (pianta con la capacità di assorbire anche 35 volte in più la co2 di un albero in una foresta tropicale), vista anche la potenziale interdizione totale della pesca a strascico, trai primi avversari della pianta in questione.

Senza parlare della maggiore protezione del coralligeno, parente stretto del Mediterraneo della barriera corallina. 

Da qui si producono a catena una serie di benefici economici per l’economia locale, dai maggiori flussi eco-turistici per immersioni, snorkeling, pescaturismo, e per i piccoli pescatori, visto il maggiore flusso di specie potenzialmente pescate, attraverso una rigenerazione delle specie all’interno dell’area stessa. Un esempio in Italia, in questo senso è l’Area Marina Protetta di Torre Guaceto.

I problemi delle Aree marine protette

Ahimè, l’elefante nella stanza rimane il fatto che solo una piccola percentuale di quel 11,62 delle AMP italiane riesce a produrre tutti questi benefici. E non è altro che un problema che respiriamo per osmosi. Infatti, anche a livello globale, cioè, circa il 9,2% dei mari del mondo è protetto, ma solo il un terzo di questo è protetto adeguatamente.

I problemi sono di natura regolatoria, carenza di controlli, sanzioni, carenza di fondi, e mantenimento di interessi locali, spesso intangibili.

Partiamo dall’aspetto della zonazione delle Aree marine protette.

Ora di base le AMP in Italia possono essere divise in tre zone: area C, B ed A. La A è l’unica tra queste dove sono proibite praticamente tutte le attività, a parte quella di ricerca scientifica, dove le creature marine possono riprodursi senza interferenze esterne, creando un effetto Chernobyl, ossia lì dove l’uomo non c’è la natura si rigenera. L'area B, invece, ha un livello di protezione intermedio. Nelle Aree marine protette italiane vediamo come le zone A e B non sono che la minor parte del totale. L’unica area marina protetta in Italia fatta solo da zona A è quella di Miramare in Friuli.

WWF Area Marina Protetta di Miramare
WWF Area Marina Protetta di Miramare

Questo si deve, principalmente, alla difficoltà di riuscire ad ottenere zone dove le attività umane siano annullate o ridotte all’osso, viste le pressioni di pescatori e altri portatori d’interesse locali.

Poi esiste un problema di carenza di fondi non indifferente. Lo scorso anno i fondi destinati dal MASE ai 24 parchi nazionali sono stati circa 80 milioni di euro, mentre alle 32 AMP solo 7,5 milioni di euro. Di fronte a questa dicotomia di allocazione dei fondi, diventa difficile per le AMP riuscire ad amministrate in maniera efficace il tutto.

Inoltre i controlli sono insufficienti e le sanzioni per chi trasgredisce sono spesso sono troppo piccole. In un incontro nello scorso Febbraio, la Federparchi ha formulato la proposta di creare accordi formali con le Capitanerie di porto, affinché gli enti che gestiscono le AMP possano aver alle proprie dipendenze funzionali l’operatività delle Capitanerie, (come del resto già accade per i parchi nazionali) e di avere un inasprimento delle sanzioni per assicurare il rispetto dei vincoli nelle zone B e C.

In conclusione, possiamo aumentare notevolmente il numero di aree marine protette, ma senza un’adeguata integrazione di questi aspetti, il rischio sarebbe quello di creare troppi specchietti per le allodole piuttosto che degli strumenti efficaci di conservazione.