Raccolta differenziata del tessile: si parte il 1 gennaio del 2022, ma ci sono ancora diversi problemi da risolvere

In Italia destiniamo al riciclo circa il 65% di tutti i rifiuti tessili che produciamo, ma la maggior parte di questi viene commercializzato verso mercati esteri. Abbiamo esempi virtuosi di aziende che investono in economia circolare, ma manca una solida struttura nazionale. A tre giorni dall’entrata in vigore della legge, il sistema presenta più falle che punti di forza. E soprattutto, non è ancora chiaro come dovrà essere attuata.
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Giulia Dallagiovanna 29 Dicembre 2021

Tra pochissimi giorni, il 1 gennaio 2022, scatterà in Italia l'obbligo della raccolta differenziata del tessile. Una novità di cui potresti non aver sentito parlare è che contenuta nel decreto legislativo 116/2020 che a sua volta attua la normativa europea sui rifiuti del 30 maggio 2018. Il nostro Paese si muove con anticipo, dal momento che l'UE aveva previsto addirittura il 2025 come scadenza per adeguarsi al nuovo corso. E in realtà, va detto che siamo già virtuosi rispetto agli altri Stati membri per quanto riguarda la gestione del tessile: riutilizziamo tra il 65% e il 68% dei rifiuti prodotti, contro una media europea che rimane al di sotto del 60%, almeno stando ai dati di Unicircular. Ma in questo panorama piuttosto incoraggiante, c'è una macchia che potrebbe rovinarlo di qui a breve: potremmo non essere pronti per avviare un sistema di economia circolare su scala nazionale. Oltre al fatto che la maggior parte dei materiali da riciclo li spediamo all'estero.

Quali sono i rifiuti tessili

Andiamo con ordine e chiediamoci prima di tutto quali rifiuti sono interessati dal provvedimento. È facile capire come gli indumenti e le scarpe ne siano i primi destinatari, ma anche le tende e i rivestimenti dei divani, così come le lenzuola e i copriletto oppure le salviette per l'igiene personale dovrebbero essere corrisposti in quel cassonetto specifico. In poche parole, a partire dal prossimo mese qualsiasi oggetto di tessuto dovrà essere differenziato per legge.

E qui nasce subito un primo problema. Non tutte le stoffe sono uguali e il riferimento è al materiale. Il settore del fast fashion, tanto per cominciare, riversa ogni anno sul mercato mondiale circa 100 miliardi di tonnellate di vestiti la cui produzione è altamente inquinante e il cui riciclo non è scontato, a causa della bassa qualità dei tessuti.

Quanti sono i rifiuti tessili

Forse anche tu te lo starai già chiedendo: qual è stata l'ultima volta che hai buttato via una maglietta o un vestito? In realtà, scartiamo rifiuti tessili molto più spesso di quanto immaginiamo. Secondo le stime di Ispra, ogni anno il 5,7% dell'indifferenziato è costituito da tessuti. Sono 663mila tonnellate che finiscono nelle discariche o negli inceneritori, quando potrebbero invece essere destinate a circuiti di economia circolare.

Ma il totale dei rifiuti è molto più elevato. Solo nel 2019 sono state prodotte a livello urbano 157mila tonnellate di scarti tessili, in crescita del 22% rispetto al 2015. Per fortuna circa il 68% di questi viene destinato al riciclo e al riuso, ma su base regionale. Una situazione che vede l'esempio di regioni molto virtuose come il Trentino che raggiunge i 4 chilogrammi di raccolta pro-capite. Seguono Basilicata e Valle d'Aosta che si avvicinano a quella quota e Veneto, Toscana ed Emilia-Romagna che si posizionano sui 3 chili per abitante. Ma ci sono anche zone in deficit come la Sicilia o l'Umbria, dove a stento si raggiunge il chilo. La prima missione dovrebbe essere quella di sanare questi disequilibri.

Quanto inquina il settore tessile

Secondo Eurispes, l'industria della moda è la seconda più inquinante al mondo dopo quella petrolifera. Lo è soprattutto nella fase produttiva degli abiti, se si pensa che il 20% dell'inquinamento idrico mondiale è da imputarsi allo smaltimento di sostanze chimiche tossiche con le quali vengono trattati (colorati, resi più morbidi e così via). E questo naturalmente è solo un dato tra i tanti. Un'indagine della Commissione europea attribuisce il 10% delle emissioni di gas a effetto serra proprio a questo settore. Numeri che arrivano fino a noi sotto forma di un paio di jeans all'ultima moda e a prezzo ridotto, o di una maglietta in saldo a pochi euro.

Li indossiamo più o meno per una stagione, quei pantaloni e quella T-Shirt, e poi li scartiamo. Perché non sono più in trend o perché si sono scuciti, proprio a causa della bassa qualità con cui sono prodotti. E se differenziati male, possono inquinare ancora, liberando nel suolo microplastiche e altri residui tossici mentre, molto lentamente, si degradano. Da qui risulta evidente, oltre a un intervento sul lato della produzione (che per la verità a piccoli passi sembra avvenire) anche su quello del consumo responsabile e poi dello smaltimento.

Lo smaltimento che già esiste

Come ormai avrai capito, l'Italia non è del tutto sprovvista di un sistema di smaltimento e riciclo di rifiuti tessili. Potresti trovare anche nella tua città un cassonetto per la raccolta di questo specifico scarto di proprietà di un'azienda registrata come gestore ambientale e che lavora in sinergia con ANCI (Associazione Nazionale dei Comuni Italiani) e CONAU (Associazione Nazionale Abiti e Accessori Usati).

Una volta gettati nel contenitore, il 29% del totale vengono destinati al riciclo industriale diventando imbottiture o strumenti per la pulizia, oppure venendo sfilacciati e recuperati come materia prima seconda per nuove stoffe. Il 68% è invece commercializzato per essere riutilizzato in mercati esteri e solo il 3% del totale raccolto tramite i cassonetti finisce effettivamente nell'indifferenziato in quanto irrecuperabile. Questi almeno sono i numeri che emergono da un report del 2019 di Fondazionesostenibile.org.

Prima di essere utilizzati, in ogni caso, i rifiuti devono affrontare tre passaggi. Il primo è la selezione dei capi che possono essere destinati al riutilizzo. Il secondo è una selezione dei singoli indumenti in modo da differenziarli il più possibile per tipologia e qualità. Il terzo infine è l'igienizzazione in base alle norme di legge in vigore in Italia. Il problema è che tutto questo sistema non esiste su scala nazionale.

I distretti del tessile

In Italia il settore tessile è connotato da una forte distrettualità. Il 60% delle aziende si concentra principalmente in Toscana, Lombardia, Veneto e Piemonte e particolarmente importante è il distretto di Prato, conosciuto ad esempio per la rigenerazione dei cenci. Di Prato è anche l'associazione ASTRI (Associazione Tessile Riciclato Italiano) nata allo scopo di proteggere e promuovere la filiera del riciclo. Una tradizione che risale addirittura alla seconda metà dell"800 e che ha condotto oggi all'arrivo annuale di 180mila tonnellate di scarti, in prevalenza lana, per essere trasformati in fibre e andare a far parte di nuovi tessuti. Un'eccellenza, su scala locale.

L'Italia non è pronta

Siamo sopra la media europea per rifiuti tessili raccolti e destinati al riciclo, sì, ma oltre la metà finiscono in mercati esteri. Con l'entrata in vigore della nuova normativa, una sfida importante dovrebbe essere dunque quella di incanalare in sistemi di economia circolare presenti in Italia. Dovremo quindi potenziare l'intera struttura e fare in modo che raggiunga in egual misura ogni regione. Questo, a tre giorni dalla scadenza, ancora non esiste. Ed è una delle ragioni per cui diverse aziende avevano chiesto una proroga e delle linee guida più chiare per applicare i nuovi regolamenti.

La responsabilità estesa del produttore

Una possibile soluzione, prevista anche dalla strategia europea, è la responsabilità estesa del produttore (EPR) già attiva in altri settori. Si tratta di un meccanismo per cui "chi inquina paga" e che rende il produttore responsabile di tutto il ciclo di vita del prodotto, fino al ritiro e allo smaltimento finale e dunque al possibile riciclo. Lo scopo è quello di penalizzare economicamente e dunque disincentivare la produzione di abbigliamento non riciclabile. Ma è un sistema che, per quanto riguarda la moda, è ancora in attesa di un decreto attuativo da parte del Ministero della Transizione ecologica.

I Textile Hubs

Sfruttando la distrettualità del settore della moda in Italia, il Pnrr destina ben 150 milioni alla creazione di "Textile Hubs" e alla filiera del tessile sostenibile. L'obiettivo sarebbe quello di recuperare la più ampia percentuale di rifiuti possibile, che il MiTe indica addirittura al 100%. Una soglia semplicemente irrealistica considerando che una parte di scarti non ha le caratteristiche adatte al recupero. Rimane infine il problema dei costi della catena, che non potranno pesare nuovamente sui contribuenti.

Insomma, la sensazione è che l'Italia questa volta stia correndo troppo veloce e che una norma molto positiva sulla carta finisca in un nulla di fatto nella pratica.