
C'è un tema che nel conflitto israelo-palestinese che rischia di passare in secondo piano, anche se è stato denunciato a più riprese negli anni dalle organizzazioni non governative. Oltre alle vicende degli ultimi giorni, che non permettono una valutazione razionale del perché questi due popoli sono in guerra da anni, ci sono i dati di fatto. Tra le cause che spesso riaccendono il conflitto c'è anche l'oro blu: l'acqua. Questa risorsa è fondamentale non solo per l'uso quotidiano, ma anche per garantire l'attività economica e lo sviluppo.
In un quadro del genere, è bene sapere che Israele ha disposizione le tecnologie più avanzate per dissalare l'acqua dal mare, a tal punto da diventare un vero e proprio "modello" con i quattro impianti ad Ashkelon, Palmahim, Hadera, Soreq. Dopo aver occupato illegalmente le colonie in Cisgiordania, oltre al fiume Giordano, i coloni israeliani hanno cominciato a sottrarre acqua dall'unica fonte che rifornisce i palestinesi: la falda montana.
Amnesty International lo aveva denunciato già nel 2009, ignorata -purtroppo- dalla comunità internazionale: "Israele non permette il trasferimento di acqua della falda acquifera montana della Cisgiordania verso Gaza. I rigorosi divieti, imposti negli ultimi anni da Israele all’ingresso a Gaza di materiali e apparecchiature necessari per lo sviluppo e la riparazione di infrastrutture, hanno causato un ulteriore deterioramento dell’acqua e della situazione sanitaria, che a Gaza ha raggiunto un livello drammatico".
Per capire in che modo questa risorsa possa diventare un'arma all'interno di questo conflitto, abbiamo contattato Riccardo Noury, portavoce Amnesty International Italia.
Quanto spesso Israele ha "chiuso i rubinetti" nei confronti dei palestinesi?
Questa minaccia è una vera e propria azione collettiva e fa parte delle operazioni militari di questa offensiva. Quando si parla di blocco della fornitura d'acqua, si intende una situazione per cui il 90% di questa risorsa è contaminata e quindi inutilizzabile per l'uso domestico. In caso contrario, ci troveremmo di fronte a un aggravamento di una situazione già molto difficile. L'acqua serve ai palestinesi principalmente per coltivare le proprie terre.
Un vostro rapporto del 2009 accusa Israele di negare ai palestinesi il diritto a un adeguato accesso all'acqua. Israele da tempo sta utilizzando l'acqua per colpire i palestinesi?
Il fatto di sottrarre risorse, come ad esempio la terra, e di negare una disponibilità adeguata di acqua fa parte in maniera evidente di una strategia che colpisce i diritti economici e sociali dei palestinesi. Quel documento del 2009 lo testimonia chiaramente, 14 anni fa c'era un rapporto di 80 a 20: l'80% della falda montana dei territori occupati veniva utilizzato da Israele, mentre ai palestinesi veniva lasciato solo il 20%. Il consumo di acqua dei palestinesi era al massimo di 20 litri al giorno in alcune aree, quando andava bene 60 litri al giorno, mentre agli israeliani spettavano 300, molti di più. I numeri parlano chiaro.
All'epoca 450mila coloni israeliani utilizzavano più acqua rispetto a 2milioni e 300 mila palestinesi nei territori occupati.
Quante fonti d'acqua hanno gli israeliani rispetto ai palestinesi?
La falda montana, per i palestinesi che vivono in Cisgiordania, di fatto è soltanto una, è da lì che arriva il rapporto che abbiamo pubblicato. Mentre gli israeliani, oltre all'acqua che sottraggono, hanno a disposizione tutta quella del fiume Giordano.
Quali sono le difficoltà che i palestinesi vivono a causa della scarsità dell'acqua?
Oltre al tema di uso domestico, sanitario e industriale, c'è quello dell'irrigazione. I palestinesi vivono sulla terra e con la terra, quando gli manca l'acqua, perché ne hanno più i coloni nelle loro piscine piuttosto che i palestinesi per le loro terre, allora si tratta dell'ennesimo caso di discriminazione nell'uso delle risorse.
Quindi Israele mira ha tagliare lo sviluppo di un popolo?
Si, esatto. Questa mossa fa parte di una strategia deliberata, non è il singolo insediamento dei coloni che ha un approccio oppressivo nei confronti dei palestinesi che gli stanno intorno. Ciò che accade fa parte di un sistema.
Qual è il vostro ruolo quando scoppiano conflitti di questo tipo?
Noi non siamo tra le organizzazioni umanitarie che danno assistenza in loco. Il nostro compito è quello di fare advocacy, ovvero produrre dei rapporti, frutto delle nostre ricerche, che presentiamo ai decisori politici con delle raccomandazioni. È evidente che tutto ciò che abbiamo inviato alla comunità internazionale per spingere i governi a porre fine a questo sistema di discriminazione, legato all'accesso delle risorse, non è stato ascoltato.
Abbiamo letto che Israele ha anche risposto al vostro rapporto. Da lì non è cambiato nulla?
No. Sul campo in realtà si è aggravata. Non è cambiato nulla, neanche nell'approccio di Israele nei confronti dei report di Amnesty International. Ci accusano di avere un pregiudizio, di antisemitismo. Questa purtroppo è una costante.
Non c'è un rapporto amichevole dunque….
Non dipende da noi. Noi non siamo anti-governativi, siamo non-governativi, il che vuol dire che pensiamo che i governi siano fondamentali per prendere delle decisioni nel campo dei diritti umani.