Traffico illecito di animali selvatici nel mondo, un business da 20 miliardi di dollari all’anno

Oggi è il World Wildlife Day, ossia la giornata mondiale dedicata alla flora e alla fauna selvatica. Il traffico illegale di piante ed animali selvatici è una delle principali cause di perdita di biodiversità nel mondo e, alimentando anche il fenomeno del bracconaggio, sta portando all’estinzione di alcune specie considerate a rischio.
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Federico Turrisi 3 Marzo 2020

Nell'Antropocene, l'era geologica che vede trionfare la presunzione dell'uomo di controllare la natura e di sfruttarne in maniera irresponsabile le risorse per alimentare la sua sete di profitto, la vita per le specie vegetali e animali è sempre più difficile. Certo, tra i fattori che minacciano la biodiversità del pianeta c'è la crescente antropizzazione: pensa solo a quanto habitat viene sottratto agli animali con l'ampliamento di città, impianti industriali e campi coltivati. Certo, c'è anche il cambiamento climatico (di cui il principale responsabile è sempre l'uomo), che contribuisce a peggiorare la situazione, alterando irrimediabilmente gli equilibri di delicati ecosistemi. C'è un terzo fattore che magari non appare in maniera così immediata agli occhi di tutti, ma crea danni altrettanto gravi. Stiamo parlando del traffico di animali selvatici.

Secondo il WWF, il commercio illegale di animali selvatici rappresenta il quarto mercato criminale del pianeta, muovendo un volume di affari che si aggira intorno ai 20 miliardi di dollari all'anno. All'interno di questo fenomeno includiamo anche la compravendita di animali vivi venduti come animali da compagnia (pensa per esempio ad alcune varietà di uccelli esotici o di primati), il commercio legato alle pellicce e ai pellami, quello legato ad animali che vengono uccisi e poi impagliati. Ma soprattutto questo mercato riguarda alcune parti di animali che sono particolarmente ricercate perché per esempio vengono utilizzate nella medicina tradizionale cinese (è il caso del corno del rinoceronte o delle scaglie del pangolino) oppure servono per la realizzazione di talismani e altri prodotti (è il caso delle zanne dell'elefante da cui si ricava l'avorio).

Molte specie si sono drammaticamente avvicinate all’estinzione proprio a causa del commercio illegale, e non a caso sono state inserite nella Lista Rossa della Iucn (l’Unione Internazionale per la Conservazione della Natura), il più completo inventario del rischio di estinzione delle specie a livello globale. Per altre invece l’estinzione è già avvenuta, come nel caso del Rhinoceros sondaicus annamiticus, una sottospecie del rinoceronte di Giava. Il commercio di specie selvatiche, che si tratti di piante o di animali, è regolato dalla Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate di estinzione, meglio nota con la sigla CITES, dall'inglese Convention on International Trade of Endangered Species. Si tratta di una convenzione internazionale firmata a Washington nel 1973, che elenca le specie animali e vegetali (circa 35mila) suddividendole a seconda del grado di minaccia per la loro sopravvivenza sul pianeta. Per molte di esse, infatti, il commercio ha rappresentato e continua a rappresentare un grosso rischio in termini di conservazione in natura, perché spesso alimenta una piaga chiamata bracconaggio.

Ma proviamo a dare una dimensione numerica di questo fenomeno. Un gruppo di ricercatori inglesi e americani, guidati da Brett Scheffers, docente di biologia della conservazione all’Università della Florida, ha analizzato un database che comprendeva 31.745 specie di vertebrati terresti, tra mammiferi, uccelli, rettili e anfibi. I risultati del loro studio è stato pubblicato sulla rivista Science. E sono piuttosto allarmanti. 5.579 specie, corrispondente a circa il 18% degli animali vertebrati terrestri, viene venduta e acquistata sul mercato della fauna selvatica. Più nel dettaglio, parliamo del 27% per quanto riguarda i mammiferi, del 23% per gli uccelli, del 12,4% per i rettili e del 9,4% per gli anfibi. Basandosi sui tratti di somiglianza filogenetica e morfologica, gli esperti hanno anche elaborato una previsione sulle specie che, pur essendo attualmente oggetto di scarso interesse da parte del mercato, vi potrebbero entrare in futuro. Ebbene, il loro numero è di 3.196 specie, il che porta a 8.775 il totale delle specie che presto potrebbero essere a rischio.

Gli autori della ricerca hanno inoltre individuato degli hotspot, ovvero delle aree in cui il mercato illegale degli animali selvatici è particolarmente fiorente. Beninteso, è un fenomeno che riguarda tutti i continenti, ma che è più marcato laddove l'ambiente presenta una biodiversità più ricca. E così i principali crocevia sono il Sudamerica (in particolare le Ande e la foresta amazzonica), l'Africa sub-sahariana, il Sud-est asiatico e l'Australia.

Un centro di grande importanza per il traffico di animali selvatici è la Cina. Questo ci permette, tra l'altro, di parlare di un argomento di attualità che sta tenendo banco nelle ultime settimane: il nuovo coronavirus. Ancora non si conosce esattamente quale sia l'origine del coronavirus SARS-CoV-2 e come sia avvenuto il passaggio da animale a uomo, ma una delle ipotesi più accreditate indica il mercato di animali selvatici di Wuhan come punto di partenza dell'epidemia. Qui venivano venduti animali di ogni tipo per i motivi che abbiamo detto prima: venduti come cibo, oppure per la loro pelliccia o ancora perché contengono ingredienti utilizzati nella medicina tradizionale cinese. Usiamo però il passato, visto che recentemente il Comitato permanente del Congresso Nazionale del Popolo, il massimo organo legislativo della Cina, ha approvato una risoluzione sul divieto assoluto del commercio e del consumo di animali selvatici.

Veniamo dunque alle possibili azioni per contrastare il fenomeno. Trattandosi di un problema globale, uno degli ostacoli principali è proprio la mancanza di uniformità normativa a livello internazionale nelle definizioni di commercio illecito, prodotti forestali e faunistici e via dicendo. Far approvare norme più stringenti sulla caccia e istituire nuove aree protette sono i primi passi da compiere. E in questo c'è da dire che l'Unione Europea è all'avanguardia. In altre zone del mondo, invece, sono le stesse comunità indigene a fornire un prezioso aiuto alle autorità statali nel combattere il bracconaggio e altre forme di attività illecite che depredano le risorse naturali. Inoltre la Fao, l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura, ha messo a punto lo Human-wildlife conflict toolkit, uno strumento operativo dedicato alla gestione del conflitto tra uomo e fauna selvatica. Il lavoro da fare è parecchio. Prima di tutto, è necessario rivedere in maniera radicale il rapporto uomo-natura. Perché così facendo stiamo distruggendo la nostra casa con le nostre stesse mani.

Fonti | Gazzetta ufficiale dell'Unione Europea, "Global wildlife trade across the tree of life" pubblicato su Science il 4 ottobre 2019.