Trovare edifici abbandonati e dare loro nuova vita: dall’idea di quattro ragazzi nasce ReCreo

Un progetto ambizioso per restituire dignità e valore agli edifici abbandonati delle campagne italiane attraverso la loro concessione a giovani gruppi alla ricerca di un luogo per realizzare le loro idee sociali. Una mappa che consente di individuare e segnalare spazi abbandonati e rimetterli a disposizione della collettività.
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Sara Del Dot 28 Settembre 2019

Se abiti in campagna o in una zona periferica lo sai bene: gli edifici in stato di abbandono in queste aree d'Italia sono migliaia, se non milioni. Strutture antiche, anche di dimensioni importanti e dal potenziale valore artistico e sociale lasciate completamente a disposizione di intemperie, depredazioni e degrado portato dal trascorrere del tempo. Eppure, questo incredibile patrimonio fantasma a qualcuno appartiene. Solo che, quel qualcuno, non sa più che farsene, il valore di mercato è troppo basso e probabilmente non ha voglia di investire energia e denaro per ristrutturarlo. I luoghi abbandonati, però, non rappresentano soltanto uno scarto immobiliare, uno spreco, bensì una grande opportunità per restituire valore sia alla struttura che al territorio in cui si trova.

L’hanno capito bene Leonardo Porcelloni, Shirin Amini, Federico Mazzelli e Leo Cusseau, quattro ragazzi che, per motivi diversi e con approcci diversi, da tempo si interessano al tema della riqualificazione dei luoghi abbandonati. Un architetto, un ingegnere, un geografo e un project manager che hanno deciso di trascorrere il loro tempo libero a progettare un sistema che consenta di mettere in comunicazione i proprietari degli edifici abbandonati che costellano la Penisola italiana con gruppi di persone, soprattutto giovani, che desiderano sfruttare le proprie competenze professionali per ripristinare il luogo e, attraverso di esso, restituire valore sociale al territorio in cui si trova. Come? Offrendo alla collettività una mappa digitale su cui segnalare e indicare i luoghi abbandonati in tutta Italia, mettendo in comunicazione chi li possiede con chi vorrebbe usarli per realizzare attività virtuose.

ReCreo, così si chiama l’ambizioso progetto, nasce due anni fa ed è in piena costruzione, anche grazie alla vincita di un bando lanciato da Welfare Impresa per premiare le idee di impresa a impatto sociale. Un’idea che oggi coinvolge soprattutto la Toscana, regione in cui abitano i quattro fondatori, ma che si prevede verrà estesa a tutte le aree marginali del Paese. Un percorso di recupero e rivalorizzazione assolutamente necessario in uno scenario, quello italiano, in cui basta fare un giro in auto nelle campagne per individuare uno, due, tre edifici completamente abbandonati a se stessi. Per capirci qualcosa in più, abbiamo parlato con Leo Cusseau, uno dei quattro fondatori, che ci ha raccontato il pensiero e le intenzioni alla base di questo progetto.

Come nasce ReCreo?

Siamo quattro persone diverse che si occupano di attività diverse, eppure siamo accomunati da un grande interesse nei confronti del contesto che ci circonda e dalla voglia di restituire un valore a ciò che è, di fatto, uno spreco. Nelle zone di campagna attorno a Firenze, dove viviamo, abbiamo sempre visto immobili in abbandono, edifici con una storia che presentano un interesse storico e culturale, spazi che rappresentano qualcosa che sta scomparendo. L’idea di fondare ReCreo è quindi nata dalla nostra volontà di mettere insieme e recuperare le ricorse abbandonate dei territori, siano esse fisiche, materiali o umane. I territori marginali sono zone ricche di risorse, ma non essendoci un ecosistema fertile, le risorse umane non riescono a essere applicate nei territori e quindi tendono a uscirne, proprio come avviene con i giovani nei paesini del sud Italia o sull’Appennino. Tuttavia, se queste risorse umane venissero aggregate, messe in correlazione tra loro in quei territori, potrebbero generare ricchezza economica e sociale.

Qual è la filosofia di base del progetto?

Le giovani generazioni in particolare, presentano spesso delle competenze avanzate, che purtroppo non riescono a essere utilizzate dagli ecosistemi che hanno attorno e quindi se ne vanno. Noi vogliamo riuscire a collegare queste competenze con le risorse territoriali. L’idea di base è mettere in relazione edifici e strutture con chi ha idee progettuali, creando una sorta di rete, di matching tra soggetti con risorse diverse a disposizione.

Come funziona concretamente questa connessione?

Ad oggi il progetto si è evoluto in una piattaforma che si concentra sugli immobili e sui terreni delle aree rurali, che sono quelle con una reale necessità, e sulle persone che hanno competenze specifiche e idee progettuali interessanti. Noi abbiamo a disposizione una mappa delle risorse in abbandono in continuo aggiornamento. Si tratta di una piattaforma open source, orizzontale in cui chiunque, in qualunque territorio italiano, può fotografare un bene e aggiungerlo alla mappa inserendone le caratteristiche. A quel punto noi effettuiamo uno screening, verifichiamo le informazioni e confermiamo l’aggiunta. L’idea di una mappatura open source è finalizzata alla creazione di una comunità di persone con un interesse comune, che oggi contribuiscono alla realizzazione di un bene immateriale come la mappa e domani potrebbero invece promuovere strumenti di recupero. Pian piano stiamo creando un database di tutto ciò che è abbandonato, proponendoci come un aggregatore, una vera e propria finestra sull’abbandono.

E se l’edificio mappato è di proprietà privata?

Un aspetto che ci interessa promuovere è la necessità di rendersi conto che ciò che si trova in stato di abbandono, anche se di proprietà privata, è uno spreco a tutti gli effetti, un danno nei confronti della collettività. Vorremmo iniziare a mettere in discussione l’idea che ciò che è privato possa rimanere inutilizzato, perché è una perdita collettiva e non del singolo proprietario.

Cosa succede dopo la mappatura?

Il passo successivo è il matching, l’incontro tra i due soggetti principali che sono proprietari e potenziali utilizzatori. L’intenzione è di mettere in comunicazione i proprietari di questi beni con le persone che hanno mezzi e idee progettuali per avviare un progetto di recupero degli stessi. Punto centrale di questa fase è il coinvolgimento dei proprietari, a cui viene chiesto di mettere a disposizione un bene che non utilizzano, e che quindi dovrebbero avere interesse a mettersi in gioco per progetti di recupero. Unica condizione è che gli edifici vengano concessi a canone agevolato.

Vincono tutti quindi.

Il beneficio è da entrambe le parti. Il proprietario, anche se dà l’edificio in concessione a canone agevolato ne interrompe la degradazione, e quindi la perdita di valore, e lo vedrà ristrutturato. E chi userà l’edificio potrà dal canto suo limitare l’investimento, sia perché verrà frazionato, sia perché potrà evitare il costo d’acquisto.

State costruendo tutto questo in autonomia o di concerto con qualche amministrazione?

Ci piacerebbe iniziare a lavorare in collaborazione con alcune amministrazioni locali, soprattutto con i piccoli comuni che sono i luoghi che maggiormente subiscono lo spopolamento dei territori, anche in intere frazioni. Al momento è ancora presto, ma l’intenzione c’è e, anzi, con alcune realtà siamo già in fase di dialogo.

Nel momento in cui riuscite a mettere in collegamento domanda e offerta, in che modo vi muovete per trovare le risorse necessarie a fare i lavori e riqualificare il posto?

Ci sono vari modelli. Alcuni prevedono l’applicazione a bandi europei specifici, ma non si tratta di modelli replicabili perché riguardano un caso unico, magari un edificio di particolare pregio o valore storico. Quello che vorremmo promuovere noi è un modello che sia il più replicabile possibile. Secondo noi il più semplice è quello dei gruppi d’acquisto, ovvero gruppi di persone che frazionano l’investimento riducendo il rischio, avendo dall’altra parte l’impegno del proprietario a concedere il bene a prezzo agevolato. Questo implica che se il bene viene recuperato dagli acquirenti, il prezzo d’acquisto può diventare molto basso e il proprietario diventa co-proprietario di una frazione dell’immobile recuperato. È un modello che mira a costruire un gruppo per effettuare un investimento che per un singolo sarebbe troppo oneroso. Per fare questo si possono utilizzare anche delle forme ibride, in cui magari c’è chi ci mette i soldi e chi invece ci mette la competenza per la progettazione e riqualificazione. E così si ritorna al modello di aggregazione delle competenze, anche dal punto di vista economico.

Quale può essere, secondo te, un possibile riutilizzo di un luogo abbandonato in modo tale che restituisca valore al territorio?

La nostra idea principale riguarda il cohousing, ma ci piacerebbe anche creare delle strutture dedicate al turismo slow, prevedendo magari periodi di residenza temporanea variabile, mettendo a disposizione spazi utili per chi svolge attività di freelance e quant’altro, che siano utili per chi è molto mobile, ma anche con un certo tipo di professione. Tutto questo collegato a un certo tipo di fruizione del territorio, quindi attraverso anche ciclovie, trekking e percorsi culturali. Un’altra cosa importante potrebbe riguardare lo sviluppo di settori innovativi in ambito agricolo. Il punto fondamentale è che a ogni intervento di recupero deve essere agganciata un’attività economica che sia legata al territorio, altrimenti c’è il rischio che si tratti solo di delocalizzare la residenzialità.