“Vi racconto la crisi climatica”: a tu per tu con la scrittrice-attivista Sara Segantin

Autrice già di tre libri, Sara Segantin, 24enne trentina e co-fondatrice di Fridays for Future Trieste, utilizza lo storytelling per cercare di arrivare a un pubblico non solo di specialisti, calando in un contesto di quotidianità la complessità dell’emergenza climatica, con tutte le sue sfaccettature psicologiche e sociali.
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Federico Turrisi 22 Maggio 2021

Chi lo ha detto che un libro sul cambiamento climatico debba essere per forza un saggio scientifico? È possibile affrontare questa incandescente materia anche in maniera differente, raccontando storie. È quello che ha deciso di fare Sara Segantin. 24 anni, di Cavalese (in Trentino), si è laureata in Lingue, letterature straniere e turismo culturale all'università di Trieste, dove ha contribuito alla nascita del gruppo locale del movimento Fridays for Future; e sempre nel capoluogo giuliano, dopo un periodo di studi negli Stati Uniti, ha conseguito un master in comunicazione della scienza presso la Sissa (Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati). Dallo scorso marzo cura anche una rubrica su giovani e ambiente nella trasmissione televisiva "Geo&Geo".

Alle spalle Sara ha già la pubblicazione di tre libri. L'ultimo in ordine di tempo si chiama "Non siamo eroi" (pubblicato da Fabbri Editori), un romanzo di formazione in cui la vicenda di Alice – una ragazza di 19 anni, cresciuta in un paesino di montagna, la cui esistenza viene sconvolta dalla tempesta Vaia – diventa il pretesto per parlare anche di questioni legate all'ambientalismo e alla lotta contro la crisi climatica.

Ci racconti come è nato il tuo ultimo libro?

Al contrario di quanto accade solitamente, sono partita dal titolo: non siamo eroi, per l'appunto. Il romanzo nasce durante il periodo delle grandi manifestazioni per il clima nel 2019. I temi connessi alla crisi climatica stavano acquisendo sempre più spazio nei media e nel dibattito pubblico. Ma anziché affrontare il problema nel concreto, si dava spazio a immagini e simboli da demonizzare o mitizzare. E questo, secondo me, tendeva da un lato a deresponsabilizzare il singolo (se aspettiamo che sia un eroe a salvarci le penne, non combiniamo niente), e dall'altro ad attribuire responsabilità troppo grandi a chi semplicemente stava facendo la sua parte.

Perché hai scelto la forma del romanzo?

Spesso i saggi fanno fatica ad arrivare a chi non è già informato su queste tematiche. Il romanzo invece risulta accessibile a un pubblico più ampio; è in grado di mettere insieme le emozioni con la ragione, la testa con il cuore. Inoltre, il romanzo permette di calare all'interno della società odierna la crisi climatica, di rappresentarne meglio la complessità, le sue contraddizioni, le problematiche psicologiche e sociali insite nell'affrontarla. Tutto questo mi ha portato a scegliere la forma del romanzo. Anche perché ce ne sono davvero pochi, soprattutto in Italia. Solitamente trattano di futuri lontani, apocalittici o distopici, mentre per me c'era bisogno di qualcosa ancorato al presente.

A questo punto, la domanda è: come si racconta la crisi climatica?

Un elemento chiave è affrontare la sua incommensurabilità. Spesso non siamo in grado di accettarla, perché viene percepita come troppo grande, troppo complessa, troppo distante nel tempo e nello spazio. Bisogna saper gestire bene la speranza: non dobbiamo affidarci a facili illusioni, ma neanche cedere al catastrofismo. Piuttosto, facciamo il possibile per costruire un cambiamento efficace, mantenendo i piedi per terra. Un altro aspetto poi riguarda il fatto di radicare in un contesto specifico le soluzioni a un problema collettivo come il cambiamento climatico. In altre parole, pensare globalmente, agire localmente. Nel libro parlo della Val di Fiemme, di Trieste, parlo dell'Alaska. La stessa soluzione non può funzionare in tutti questi posti, perché le condizioni sociali, economiche, territoriali sono diverse. L'ultimo punto, che mi sta particolarmente a cuore, è infine il confronto continuo.

In che senso?

Lo ripeto spesso, occorre passare dal senso di colpa al senso di responsabilità. E le persone vanno responsabilizzate non con le prediche dal pulpito ma con il dialogo, in modo che ognuno acquisisca gli strumenti per compiere le proprie scelte in maniera consapevole. Nel romanzo non do risposte, ma sollevo un sacco di domande. In questo modo, spero di stimolare i lettori a porsi degli interrogativi e a cercare quelle risposte che ci possono portare insieme a immaginare un futuro che è già presente, in un certo senso.

Ti sei ispirata a qualche modello in particolare dal punto di vista letterario?

A livello teorico, sono stati molto utili "Don't Even Think About It – Why Our Brains Are Wired to Ignore Climate Change" di George Marshall, "The Sixth Extinction" di Elizabeth Kolbert, oltre ai libri di Annika Arnold sullo storytelling dei cambiamenti climatici e di Paul Hoggett sugli aspetti psicologi della crisi climatica. A livello di romanzi, non ho mai trovato un vero e proprio modello letterario. Ho cercato un po' di inventarmelo. Posso dire di essermi ispirata in parte ai grandi della narrativa per ragazzi, come Roberto Piumini e Bianca Pitzorno. Scrivere un romanzo per ragazzi è una sfida ancora più ardua: la semplicità è essenziale, ma occorre rendere fruibile la lettura senza essere superficiali.

Ispirazioni dalla vita quotidiana, invece?

Per me è fondamentale vedere le differenze di percezione di un determinato problema. Lo scrivo anche nel libro, l'azione parte dalla comprensione. Ascoltare più voci possibili per me è stata la chiave più importante. In qualche modo, le varie persone che ho avuto la fortuna di incontrare in questi anni, come tante tessere di un puzzle, sono confluite nel mio romanzo.