Dentro ai primi mondiali di Plogging con Ohga: il diario rifiuto dopo rifiuto

Nel weekend tra il 1 e il 3 ottobre in Val Pellice (Piemonte) sono andati in scena i primi campionati mondiali di Plogging, lo sport che unisce la corsa con la raccolta rifiuti. Siccome detta così rende ancora poco, abbiamo deciso di raccontartelo da più vicino, anzi: da dentro.
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Kevin Ben Alì Zinati 5 Ottobre 2021

Sono tornato indietro con un sacco zeppo di rifiuti e uno pneumatico. Il regolamento dei primi campionati mondiali di Plogging ci permetteva di trasportare fino a tre rifiuti ingombranti fuori dai nostri quattro sacchi e questo sarebbe stato il caso perfetto. Avrei potuto infilarlo sulle spalle a mo’ di tracolla se non fosse stato per il cerchione, un diamante di ferro arrugginito e un po’ divelto incastonato al centro della gomma.

L’ho trovato durante la salita alla seconda tappa obbligatoria del percorso, la località Bessè. Ci sono arrivato insieme a Roberto attraverso un sentiero di bosco stretto e costellato di quei muretti in sasso che ispirano poca stabilità ma che invece sono in piedi da decine di anni.

Roberto è un plogger bresciano esperto, l’avevo già incontrato qualche chilometro prima lungo la provinciale che ci ha portati al laghetto del Nais. Capelli brizzolati e sorriso accogliente, si arrampicava davanti a me a passo veloce mentre con le bacchette scostava le foglie per scorgere qualche rifiuto.

Sulla strada che porta verso il laghetto del Nais di Bobbio Pellice, mentre raccolgo un rifiuto. Foto di Stefano Jeantet.

Se uno dei requisiti per fare bene al primo campionato mondiale di Plogging era la strategia, quella non pareva essere stata una gran mossa. In oltre mezz’ora di salita non avevo trovato niente. Stavamo commentando la stagione turistica estiva sul lago di Varese – non eccessivamente asfissiante – quando ho intravisto dei ruderi sotto un grande masso.

Mi sono avvicinato a quello che pareva un flacone di detersivo squarciato e zeppo di un liquido verde. Ho annusato ma non emanava alcun odore strano. “C’è qualcosa anche per me?” ha chiesto Roberto. Lì accanto c’era lo pneumatico.

Nei miei primi chilometri di Plogging in Val Pellice a cui ho partecipato come atleta-giornalista di Ohga ho visto atleti scovare ogni genere di scarto, dal pezzo di guardrail accampato in mezzo ai rovi fino alle cassette della frutta appoggiate silenti agli alberi. Immerso in quell’alone di competitività sportiva non vedevo l’ora di trovare qualcosa di “grande” anche io, così da racimolare un bel gruzzolo di punti. Per certi versi però sarebbe stato meglio restare a mani vuote.

Il mio sacco dei rifiuti e il "mio" pneumatico con il "suo" cerchione.

Ho lasciato lo pneumatico lì in mezzo al bosco, infagottato in uno dei miei sacchetti, per tornare a riprenderlo poi, sulla via del ritorno. Un’altra postilla del regolamento ci consentiva di non doverci portare sempre dietro tutti i rifiuti raccolti. Avremmo potuto lasciarli in giro per la Valle, a patto però di ricordarci il punto esatto, recuperarli e assicurarci di raggiungere l’arrivo in tempo.

La deadline era fissata per le quattro e venti. Ogni minuto in anticipo e “rubato” alla pulizia sarebbe costato un punto, un minuto oltre quell’orario invece avrebbe comportato la squalifica.

Un altro sacchetto l’avevo lasciato la laghetto del Nais, a Bobbio Pellice. Era una tappa obbligatoria per tutti e mi sembrava un luogo adatto per depositare i miei rifiuti: non me lo sarei scordato e avrei saputo raggiungerlo con facilità. Dentro ci avevo buttato almeno due mascherine raccolte sul ciglio della strada, bottiglie di vetro, nylon, polistirolo, una pallina di gomma oggetto dei desideri di qualche cane e un’infinità di plastica declinata in ogni forma: sacchetti, tappi,  bottigliette, “mutande” di pacchetti di sigarette, cocci colorati provenienti da oggetti non identificati.

Insieme al mio primo sacchetto, quasi pieno e già pesante.

Lungo la strada ho trovato pure un auricolare bluetooth, che ancora oggi mi chiedo come abbiano fatto a “perdere”. Il mio primo rifiuto raccolto come plogger però è stato un pezzo di plastica nero e curvo. In origine doveva probabilmente essere stato agganciato al paraurti di un’auto, ora invece stava sotterrato da chissà quanto tempo sotto il muretto di un cancello.

Ogni checkpoint raggiunto veniva certificato con un timbro sul pettorale e oltre a quelli obbligatori potevamo collezionarne altri due “facoltativi”. Uno di questi era il rifugio al Barma d’Aut, a più di 1500 metri di altitudine e più o meno a un’oretta dalla località Bessè, o almeno così diceva l’indicazione.

Roberto aveva deciso di non salire fin lì e di tornare a valle per raccogliere ancora un po’. L’idea non era malvagia, sarei stato più vicino al mio pneumatico e non avrei rischiato di sforare la deadline. I mille e passa punti in più garantiti dal dislivello però erano come caramelle per un goloso. E io sono un drogato di caramelle.

Nel mio sacco ho buttato mascherine, bottiglie di vetro, nylon, polistirolo e un’infinità di plastica declinata in ogni forma

Avrei dovuto arrivare in cima in fretta, farmi timbrare, scendere, recuperare lo pneumatico, l’altro sacchetto di rifiuti al laghetto e ripercorrere i 9 chilometri che mi speravano dall’arrivo. Ho guardato l’orologio – forse per la prima volta – e segnava le dodici: ce l’avrei fatta? Quella contro il tempo è la sfida di maratoneti e runner, ogni giorno convinti di beffarlo. Ogni volta ci provano, ogni volta perdono e la volta successiva si riconvincono comunque di portacela fare.

Perciò mi sono incollato alle suole di due ultra trail runner e sono salito. Che fossero degli esperti l’avevo dedotto dal passo troppo leggero sui gradini naturali di sassi e radici e dal fatto che il giorno prima i loro nomi durante la presentazione erano rimbombati della manifestazione accompagnati dalla parola “campioni”.

Alcuni sacchi pieni di rifiuti e lasciati lungo la strada che collega Torre Pellice a Bobbio Pellice. Foto di Stefano Jeantet.

La loro strategia era diversa perché avevano preferito mettere chilometri e dislivello prima e raccogliere rifiuti dopo. Furbi. Li ho seguiti su un percorso ancora infangato dalla pioggia del giorno prima, con curve a gomito strettissime e discese ripidissime. Da qui, intorno al 1550, gli abitanti di queste valli facevano rotolare giù le teste mozzate dei prigionieri francesi per dissuadere le altre truppe nemiche a seguirli. Me l’ha raccontato una guida del posto mentre bevevo un succo alle pesca al checkpoint del Bessè.

Mentre immaginavo crani ballonzolare a valle come palle di neve che man mano diventano sempre più grandi, il tempo passava e la salita non finiva mai. Mi muovevo in altezza e non in distanza i miei sacchi si allontanano sempre di più. Ogni atleta che incontravamo scendere dalla cima recitava sempre la stessa filastrocca: “manca un quarto d’ora”. Ma era chiaramente una balla: quel quarto d’ora durava sempre più di un quarto d’ora e al terzo incontro con un plogger che si caracollava giù erano passati almeno 25 minuti.

Un foglio di vetroresina usato come tappeto per trasportare rifiuti. Foto di Stefano Jeantet.

Durante le gare di endurance c’è un momento di estraneamento. Le gambe girano e il cervello comincia a giocare a ping pong con i pensieri. Quello che mi ha tenuto compagnia più a lungo mentre salivo e scendevo dal Barma d’Aut è stato questo: il Plogging ti fa vedere le cose da una prospettiva diversa.

La passione per uno sport può spingerci oltre il cronometro, gli avversari, le classifiche, i premi e le medaglie. Anche se apparentemente non ha alcuna implicazione se non quella di farti divertire e star bene, può facilmente diventare la benzina per la macchina del cambiamento che tanto sbandieriamo e che ancora troppo poco mettiamo in moto.

Il mio primo rifiuto raccolto è stato un pezzo di plastica proveniente dal paraurti di un’auto che stava sotterrato sotto il muretto di un cancello

L'attività fisica – qualunque essa sia – è in grado di dare a tutti il potere di fare la differenza. È banale, può suonare più come una toppa dato che la soluzione vera sarebbe stato non abbandonare tutti quei rifiuti ma perché non ci abbiamo pensato prima? E soprattutto: perché non lo stiamo facendo tutti?

Una plogger mentre porta via dalla Val Pellice la porta di un frigorifero. Foto di Stefano Jeantet.

Dopo un paio di giri a vuoto e una giusta dose di ansia ho ritrovato il sentiero e sono tornato a recuperare lo pneumatico. Nella strategia rientrava anche capire come portare a “casa” tutti i rifiuti che avremmo trovato. Qualcuno li ha portati in spalla come un giogo di legno, altri li hanno trascinati.

Il mio pneumatico ed io alla fine abbiamo stretto un patto e siamo andati d’accordo solo così: lui non avrebbe più aumentato il suo peso metro dopo metro come pareva avesse fatto negli ultimi 200 metri e io l’avrei portato in braccio per i successivi chilometri.

Ho fatto dell’altro sacco un mantello da supereroe annodato al collo e tirato lungo la schiena e mi sono incamminato. Da solo, sul ciglio della strada. Ogni tanto qualche atleta spuntava dalle retrovie, mi salutava con un sorriso e sfrecciava via con i suoi rifiuti.

“Lei, uomo con la ruota, dove corre!”. Un gruppo di altri ultra trail runner che mi aveva preso in simpatia mi ha aspettato e scortato fino alla fine. Questa volta sono stati loro a farmi capire, con discrezione, che erano degli atleti pazzeschi.

Con il mantello da superiore fatto di rifiuti in direzione Torre Pellice. Foto di Silverio Desantis.

Solo poche settimane prima avevano partecipato alla 100 miglia del Monviso e oggi erano qui per divertirsi facendo qualcosa di utile. Per capirci: 100 miglia sono più o meno 160 chilometri, il vincitore – anche lui presente ai mondiali di Plogging – ha chiuso in 23 ore, l’ultimo in 42.

Da dietro lo pneumatico, a pochi metri dall’arrivo, ho scorto di fronte a me Roberto Cavallo, l’ecorunner e organizzatore della manifestazione. Le mia braccia non ne volevano sapere di reggere ancora quel peso così gli ho chiesto di stringermi le mani per fare intrecciare le dita come in una morsa. Era l’unico modo per riuscire a tenere su il mio pneumatico. Gli ultimi 600 metri con due sacchi di immondizia raccolta in oltre 33 chilometri nella Val Pellice – e sotto gli occhi di Erik Ahlström, l'inventore del termine Plogging – sono stati i più duri. Anzi no: sono stati i più belli di tutti i campionati mondiali di Plogging.

I ploggers riuniti insieme a Roberto Cavallo e sotto gli occhi di Erik Ahlström, l’atleta svedese che per primo ha inventato il termine Plogging. Foto di Stefano Jeantet.

A settacciare e pulire le strade e i sentieri tra Torre Pellice, Bobbio Pellice e le loro vallate eravamo in poco meno di 60 atleti. Insieme abbiamo raccolto 795chili di rifiuti tra cui una macchinetta del caffè, la porta di un frigorifero, svariate gomme d’auto, molle di materassi, biciclette per bambini, tubi, cavi, fili. Percorrendo un totale di quasi 1780 chilometri abbiamo contribuito a risparmiare più o meno 800kg di CO2.

Dalla mia prima esperienza come plogger mi porto a casa una medaglia di legno meravigliosa e la consapevolezza che da ora in poi correrò con gli occhi abbassati a terra e un sacchetto in tasca. Sulle braccia ancora bruciano i lividi, le gambe tremano per lo sforzo, cammino male, fatico a scendere le scale di casa e non riesco a tenere il braccio alzato per sorreggermi ai sostegni della metro. Ma oggi (anche) grazie a noi un angolino di mondo è un po’ più pulito.