Ci sono città in Italia che abbiamo sommerso volontariamente per produrre energia elettrica, come il piccolo centro di Curon, e poi ci sono città che potrebbero sparire nei prossimi decenni perché probabilmente abbiamo prodotto troppa energia nel modo sbagliato. Sto parlando proprio di un fenomeno che abbiamo approfondito più volte e che sta procedendo a ritmi più veloci del previsto: l'innalzamento del livello del mare.
L'Italia, come puoi immaginare, è particolarmente interessata da fenomeni di erosione costiera. A segnalarlo c'è Legambiente, che fa notare come il 50% delle nostre spiagge sia soggetto a erosione. Negli ultimi 50 anni il Paese ha perso in media 23 metri di profondità di spiaggia su 1750 km di litorale. Il fenomeno è aggravato anche dal verificarsi di situazioni di subsidenza: il lento e progressivo sprofondamento del suolo. Questo movimento ha un forte impatto sulle zone costiere e aggrava le conseguenze dovute all'innalzamento del mare per via del cambiamento climatico.
È uno studio dell'Università di Padova, in collaborazione con Cnr-Irpi, Cnr-Igg, ad aver dimostrato che, quando i fenomeni agiscono contemporaneamente, il rischio è che si verifichino nuovi disastri climatici. “Quasi 200 km della costa adriatica settentrionale sono caratterizzati da una quota inferiore al livello medio del mare o appena sopra di esso. In queste aree, anche pochi centimetri di subsidenza aumentano la probabilità di inondazione", spiega il dirigente di ricerca Luigi Tosi del Cnr-Igg.
Inoltre l'organizzazione C40 Cities, una rete di sindaci di quasi 100 città volta a collaborare per adottare azioni in grado di contrastare la crisi climatica, ha realizzato il report "The future we don't want", in cui vengono mostrati gli scenari futuri dell'impatto che l'innalzamento del mare potrebbe avere sulle città. C40 Cities afferma che dalle ultime analisi la popolazione che vive nei centri urbani colpita dall'innalzamento del livello del mare ammonterà a 800 milioni, che vivono in 570 città del mondo, entro il 2050.
Tutto ciò accadrà se i governi, compreso quello italiano, non si impegneranno nel rispettare gli Accordi di Parigi, che prevedono un aumento della temperatura globale contenuto entro massimo 1,5°C. E il mancato raggiungimento di questo obiettivo comporterebbe dei costi insostenibili per le nazioni, che per rimediare a una situazione di inondazione delle coste dovranno affrontare, secondo le stime della ricerca, costi pari a 1.000 miliardi di dollari entro la metà del secolo.
Ma non c'è solo la questione economica a rendere urgente l'azione dei governi internazionali. Non è un segreto che, secondo gli ultimi rapporti dell'IPCC, "Si prevede che l’innalzamento del livello del mare alla fine del secolo aumenterà di circa 0,43 m nello scenario di riduzione molto elevata delle emissioni (RCP2.6), e di circa 0,84 m nello scenario ad alte emissioni (RCP8.5), rispetto al periodo 1986-2005".
Il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico è chiaro: l'innalzamento del livello del mare è inevitabile. Per questo motivo devono essere presi in considerazione tutti i sistemi di protezione delle coste e i processi di adattamento che utilizzano gli ecosistemi e soluzioni derivate dalla natura.
In Italia l'unica grande struttura in grado di contrastare, almeno al momento, i fenomeni di alta marea è il Mose di Venezia. IL Modulo sperimentale elettromeccanico realizzato per evitare che Venezia finisca sott'acqua funziona nel momento in cui le maree previste sono superiori a 130 cm di acqua. La sua inaugurazione completa è prevista per settembre del 2023.
Un esempio del suo funzionamento lo abbiamo visto con l'allerta meteo scattata in Italia, dovuta al ciclone Poppea. Con una massima di 110 centimetri in mare e di 85 nel centro storico a Piazza San Marco si sono create soltanto alcune pozzanghere d'acqua. Scene rare per questa città, che è abituata da anni a utilizzare dei percorsi rialzati per spostarsi all'interno della città.
Ma strumenti come il Mose per quanto tempo potranno proteggerci? Abbiamo bisogno di strutture simili anche in altri luoghi del nostro Paese? Quali sono le alternative? Ohga ne ha parlato con Georg Umgiesser, oceanografo, sviluppatore di modelli numerici e nel team dei ricercatori del Mose.
"Il delta del Po e la costa romagnola sono tutt'altra cosa rispetto alla situazione di Venezia, io lì non vedo possibilità di poter intervenire con una struttura simile", risponde Umgiesser, spiegandoci che una soluzione possibile potrebbe essere rialzare i terreni o intervenire con delle dighe. Questi interventi però risulterebbero enormemente costosi, perché l'Italia con i suoi 8.300 km non può essere riempita interamente di argini artificiali. E allora, quali soluzioni rimangono per i litorali dove non è possibile realizzare opere di questo tipo? Non ci sono purtroppo molte soluzioni, se non la mitigazione del clima e qualche proposta della comunità scientifica, che però attualmente rimane solamente un'idea.
"Il Mediterraneo subirà lo stesso innalzamento come gli oceani. A questo punto si attua una rilocation, che è un termine tecnico per descrivere un ricollocazione di tutte le persone che vivono nelle aree costiere in zone che sono più verso l'entroterra. Purtroppo è una situazione che si verificherà prima o poi e non vedo nessuna possibilità che il livello medio non salga a dei livelli che sono effettivamente preoccupanti", afferma Umgiesser. Inoltre il ricercatore spiega che sistemi come il Mose non serviranno più a nulla, nel momento in cui l'innalzamento del mare sarà di 30-40 cm, il Mose dovrebbe essere chiuso così tante volte che la situazione non sarebbe più fattibile.
"Non sappiamo ancora quando ciò accadrà", dice Umgiesser, e continua " sicuramente entro il 2100″.
Sembra quasi che l'unica speranza sia ricorrere a soluzioni attualmente estreme, come la chiusura dello Stretto di Gibilterra (il tratto di mare in cui le acque del mar Mediterraneo comunicano con quelle dell'oceano Atlantico). Per ora rimane comunque soltanto un'ipotesi che circola nei convegni scientifici, ma dal punto di vista dei costi economici potrebbe risultare promettente.
Il tema dei costi infatti non sarebbe così spaventoso come si può pensare, Umgiesser ci spiega che la spesa per un'impresa del genere potrebbe aggirarsi sui 30 miliardi circa. Il che, se lo paragoniamo ai costi che ci sono voluti per la realizzazione del Mose, è molto poco. In più l'opera potrebbe ricevere il contributo di più Stati. Il problema è politico, perché ci sono tratte commerciali e militari che diversi Stati si rifiuterebbero di cancellare.
Chiudendo prima Gibilterra e poi Suez (opera più facile perché è un canale artificiale) gli Stati che si affacciano sul Mediterraneo sarebbero in grado di decidere il livello medio del Mar Mediterraneo. Si potrebbe addirittura decidere di renderlo di 1 un metro più basso rispetto al livello degli altri mari e di far entrare la quantità necessaria di acqua.
"Il Mar Mediterraneo è un bacino ad evaporazione, per cui basta aspettare e il livello del mare scende progressivamente", dice Umgiesser.
La proposta di chiudere lo Stretto di Gibilterra nasce da un'idea dell'oceanografo Jim Gower. Nel suo studio, che riprende analisi precedenti, Gower dimostra come "il mare finirà per salire a un livello tale per cui anche le continue chiusure non saranno in grado di proteggere la città dalle inondazioni", per cui la domanda non è se questo accadrà, ma solo quando. È da questo assunto che Gower ipotizza una diga per lo Stretto di Gibilterra, in grado di proteggere Venezia, e ogni altra città e costa del Mediterraneo e del Mar Nero.
Essendo il Mar Mediterraneo, come abbiamo detto, un bacino ad evaporazione, bloccare Gibilterra permetterebbe al Mar Mediterraneo di abbassarsi, perché l'evaporazione supererebbe l'afflusso. Pensa che l'ipotesi era stata paventata già nel 1930 dall'architetto Hermann Soergel con il progetto Progetto Atlantropa, volto ad abbassare il Mediterraneo di 200 metri per la costruzione di nuovi terreni e per l'energia idroelettrica. Idee simili sono state proposte anche dall'oceanografo americano Stommel nel 1958 e da Johnson nel 1997 "per bloccare la fuoriuscita dell'acqua salata e quindi di acqua salata e quindi "prevenire una futura era glaciale".
Esistono nel mondo progetti simili, dedicati alla protezione di intere aree costiere. Uno di questi è quello riguardante il Golfo Persico e il Mar Rosso, anche per il Mar Baltico si sta pensando a un intervento simile, e in ultimo per lo stretto di Dover (canale della Manica).
L'Oceanografo Umgiesser torna sulle soluzioni da adottare, riferendosi alle dighe, spiegandoci che in ogni caso si tratterebbe di interventi a valle e che con il tempo il mare ricoprirebbe sempre di più il nostro Paese. Per questo motivo Umgiesser dice che è assolutamente importante intervenire con delle misure di mitigazione del clima a livello globale.
"Abbiamo visto alla Cop27 che i Paesi sono molto restii nell'attuare misure a tutela del nostro Pianeta. Il costo di riparazione dei disastri climatici sarà enormemente superiore a quello di prevenzione". Il tema dell'innalzamento del mare viene visto come una minaccia da Paesi che si trovano in territori a rischio inondazione, eppure potremmo sfruttare questa situazione per adattarci a uno scenario del genere.
È proprio quello che sostiene Georg Umgiesser, ipotizzando il fatto che si potrebbe anche prendere in considerazione la scelta di non difendere più il territorio del Delta del Po, lasciando che venga invaso dall'acqua, per passare dall'agricoltura alla piscicoltura. In sostanza: anticipare il cambiamento climatico riconvertendo e ripensando i nostri modelli di vita. "È chiaro che per alcuni l'innalzamento del mare è visto come una minaccia, ma in alcuni punti potrebbe diventare un'opportunità, cerchiamo almeno di sfruttarla", conclude Umgiesser.