
Non è una tecnologia nuova – che ha iniziato, infatti, ad essere esplorata già dal 1970 – eppure in relazione al contrasto al cambiamento climatico è un'applicazione recente. Ma cos'è la “carbon capture”? L'anidride carbonica prodotta dalle attività umane è una delle principali cause del surriscaldamento globale, tanto che nel 2020 la sua concentrazione nell'atmosfera risultava essere il doppio rispetto al livello preindustriale: e se potessimo catturarla, invece di disperderla nell'aria? Il concetto dietro la CCUS (carbon capture, utilisation and storage) è in poche parole questo, anche se il processo è più complicato da spiegare. Nei settori cosiddetti “hard to abate”, cioè le industrie che emettono questo gas serra in elevate quantità indipendentemente dalla fonte energetica utilizzata (come cartiere, cementifici, industrie del vetro, della ceramica o dell'acciaio) può essere una soluzione determinante per la sfida Net Zero.
In parole semplici la CCUS avviene in tre fasi fondamentali: nella prima le molecole di anidride carbonica prodotte, ad esempio, dai combustibili fossili vengono catturate e compresse attraverso un particolare processo tecnologico. Quindi ci si occupa di stoccare la CO2 in luoghi sicuri, e infine la si può riutilizzare in altri processi produttivi: di fatto ricavando da un problema una nuova opportunità. Già in USA, Australia e Regno Unito l'interesse verso questa tecnologia si è riacceso, anche grazie ai report della IEA (l'agenzia internazionale dell'energia), in cui si sollecitano maggiori investimenti nella cattura e nel riutilizzo del carbonio, tecnologia considerata indispensabile per la decarbonizzazione del sistema energetico, e ormai sicura e applicabile.
In Italia le innovazioni più interessanti vengono da Eni, che non solo ha messo in campo strumenti all'avanguardia per simulare e studiare le interazioni tra CO2 e roccia, così da simulare nel tempo le migliori soluzioni di stoccaggio, ma sta anche lavorando alla tecnologia della mineralizzazione. Valorizzare l'anidride carbonica, infatti, è la cosa su cui il mondo accademico si sta concentrando nell'ottica di una transizione ecologica che abbia alla base l'idea di economia circolare: la CO2, reagendo con silicati di magnesio o calcio, può fissarsi sotto forma di materiale inerte utile nel settore delle costruzioni, dando vita così a nuove filiere produttive.
Ma di quanto carbonio stiamo parlando? La capacità teorica di stoccaggio nel sottosuolo, utilizzando come deposito anche i giacimenti di gas naturale ormai esaurito, può raggiungere verosimilmente i 13.000 miliardi di tonnellate, a fronte dei 37 miliardi di tonnellate di CO2 che viene emessa annualmente. Eni punta a dare il suo contributo arrivando a stoccare 10 milioni di tonnellate all'anno entro il 2030 e 50 MT entro il 2050: un obiettivo non da poco che prenderà il via già tra pochi mesi. Quello di Ravenna è il primo progetto di stoccaggio in Italia, realizzato insieme a Snam: con una capacità di 500 MT di CO2 ha la peculiarità di poter contare sugli asset dismessi, riutilizzandoli. Si partirà con una prima fase, catturando 25mila tonnellate di CO2 per anno a partire dal 2024 emesse dalla centrale Eni di Casalborsetti, che con il sistema CCS (Carbon Capture and Storage) sarà poi convogliata verso la piattaforma a largo delle coste ravennati e quindi stoccata nell'ex giacimento di gas. La fase 2, prevista invece per il 2027, servirà a stoccare fino a 4 milioni di tonnellate di CO2, contribuendo significativamente alla decarbonizzazione del Paese.
Le potenzialità della carbon capture sono indiscutibili, ma la ricerca e la sensibilizzazione verso questi temi sono due baluardi indispensabili per raggiungere, insieme, l'obiettivo Emissioni Zero entro il 2050.