Ecco perché la pretesa di avere sempre frutta esteticamente perfetta rischia di essere un limite

Nel rapporto “Siamo alla frutta”, l’associazione Terra! pone l’accento sull’insostenibilità di alcuni meccanismi normativi e delle pratiche della grande distribuzione organizzata che impongono rigidi standard per l’accesso al mercato del fresco. L’altra faccia della medaglia però sono lo spreco e il rischio di mettere in difficoltà gli agricoltori, già alle prese con la crisi climatica.
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Federico Turrisi 24 Giugno 2021

Quando passiamo per il banco dell'ortofrutta al supermercato siamo abituati a vedere sempre dei prodotti dall'aspetto praticamente perfetto: pesche senza l'ombra di un difetto, mele tutte uguali a se stesse eccetera. L'occhio vuole la sua parte, starai pensando. Questo è il mantra della GDO, la grande distribuzione organizzata. Tuttavia, i criteri rigidi per la selezione dei prodotti ortofrutticoli rischiano di fare male all'ambiente e di ritorcersi sugli stessi agricoltori, che fanno sempre più fatica a causa del cambiamento climatico. A mettere in evidenza questo corto circuito è il nuovo rapporto "Siamo alla frutta" realizzato dall'associazione Terra! Onlus.

Partendo dall'analisi di quattro specifiche filiere (pere, arance, kiwi e mele), il dossier indaga l’impatto di regole di commercializzazione e sistemi di mercato sull’agricoltura, costretta a produrre frutta e verdura sempre esteticamente perfette per riuscire a venderla ai supermercati. Un’impresa sempre più difficile a causa della crisi climatica, che rende la produzione irregolare e i prodotti meno omogenei per forma e dimensione. Quello agroalimentare infatti è il settore che, pur avendo una grande responsabilità in termini di emissioni di gas serra, è allo stesso tempo quello che ne subisce i danni maggiori: l'aumento di eventi meteorologici estremi condiziona la produzione, le temperature medie più alte fanno oscillare le rese e le siccità prolungate colpiscono le risorse idriche.

Ciò che spesso si dimentica quando si affronta il tema dello spreco alimentare, è che a varcare la soglia del nostro frigorifero e dei supermercati sono solo i frutti più belli, lucidi e rotondi. Una parte significativa della produzione mondiale non è invece in grado di accedere al mercato del fresco, perché ogni frutto deve rispondere a standard di commercializzazione e a severe norme europee, che non tengono conto dei tempi e della variabilità della natura. Secondo i dati forniti dalla Fao (l'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura), il 33% dell’intera produzione alimentare non viene consumata. In caso di frutta "difettosa", le strade sono solitamente due: o finisce, per costi irrisori, alle industrie di trasformazione per farne succhi di frutta o diventa semplicemente scarto.

Nel tempo sono state promosse campagne di valorizzazione dei prodotti che non rispondono in pieno ai criteri estetici imposti dal mercato ma che sono buoni dal punto di vista organolettico. In Italia ci sono diversi esempi virtuosi, come quello di Bella Dentro, che vengono premiati da chi è attento non solo alla qualità del cibo, ma anche alla sua sostenibilità (ambientale e socio-economica). La domanda posta dagli autori del rapporto allora è questa: è davvero il consumatore a non volere un prodotto "brutto ma buono", o è piuttosto responsabilità del mercato aver indotto i consumatori a fare del giudizio estetico una delle principali leve per l'acquisto?