
Adattarsi non significa resistere, ma sfruttare i cambiamenti in corso così da mettere in moto modelli di esistenza diversi, più sinergici e sostenibili. E mostrare questi modelli è proprio lo scopo di Adaptation, il progetto digitale di giornalismo costruttivo che ormai da tempo si occupa di raccontare nel dettaglio in che modo le comunità del mondo stiano modificando i propri modelli produttivi, politici e architettonici per applicarli in modo efficace ai cambiamenti climatici e ambientali in corso, cambiamenti che non possiamo più ignorare.
Se la prima tappa del viaggio di Adaptation era stata l’Olanda, modello virtuoso di gestione e utilizzo delle dinamiche naturali per rispettare di più la natura stessa traendone beneficio anche per l’essere umano, ieri è stata presentata e resa disponibile e navigabile un’altra puntata del progetto, la prima a coinvolgere l’Italia.
Il primo capitolo italiano del progetto interessa nello specifico l’Emilia Romagna e in particolare le sue forme di adattamento alla crisi idrica che interessa non soltanto il suo territorio ma l’intero Paese. L’Emilia Romagna è un caso importante in questo contesto, dal momento che nel 2018 la regione ha varato il proprio piano di adattamento regionale.
In questa ricca puntata, il team di Adaptation ha potuto vedere con i propri occhi e documentare le sfaccettature di questa problematica e mostrare modelli positivi locali di adattamento.
"L'Emilia Romagna può essere definita una regione-laboratorio molto importante", spiega Marco Merola, autore di Adaptation. "Si tratta infatti di un territorio con grandi problemi di dissesto idrogeologico e di impatti del cambiamento climatico. La storia, anche quella recente, ha dimostrato quanto questa Regione sia fragile, dato che solo negli ultimi 10 anni, tra il 2010 e il 2020 si sono verificate circa 10 alluvioni, l'ultima proprio nei giorni scorsi sul Panaro, che è esondato dagli argini distruggendo campagne, case e villaggi. Mentre prima la frequenza di questi eventi era più dilatata nel tempo, ora è evidente che sta accadendo qualcosa di importante, qualcosa che molti continuano a chiamare maltempo. In realtà si tratta di eventi meteo-climatici estremi che comportano conseguenze estreme. Abbiamo quindi pensato che fosse interessante andare a vedere se questa Regione stesse facendo qualcosa per convivere con questo problema o se invece ne fosse soltanto ostaggio. Un altro motivo importante che ci ha spinti a partire da qui è che l'Emilia Romagna è forse la prima regione italiana a essersi dotata, nel 2018, di un proprio piano di adattamento regionale. Sulla carta esisterebbe anche un piano nazionale che attualmente si trova in stallo, quindi sono le singole realtà a doversi dotare autonomamente degli strumenti che consentano loro di sopravvivere a questi eventi estremi."
Una risposta spontanea e necessaria, quella dell'Emilia Romagna, che ha saputo dare vita a una serie di esempi virtuosi di risposta ai cambiamenti che altrimenti potrebbero provocare danni notevoli al territorio e alla sua economia. Il centro di questi meccanismi è un elemento che rappresenta al tempo stesso risorsa preziosa e pericoloso nemico: l'acqua.
"L'acqua è stato un po' il driver, il fil rouge di questo lavoro, unendo tutte le varie storie che abbiamo raccontato. Un esempio è la cittadina di Cesenatico, che ci ha stupiti particolarmente, dal momento che è un porto canale in cui si sviluppa il centro città. Questo porto canale rappresenta anche il vulnus, la ferita aperta, dal momento che quando si verificano condizioni meteo-climatiche estreme la città si trova davanti un doppio problema: infatti, le piogge forti dall'interno ingrossano i canali e rischiano di inondare la città spingendo verso l'esterno, mentre dal mare arrivano le mareggiate che spingono dal lato opposto. Cesenatico si è quindi dotata di una serie di paratie di acciaio, come delle porte, che regolano l'acqua consentendo di evitare che il centro si allaghi. E la cosa bella è che non si tratta di una novità, ma è un'invenzione di Leonardo Da Vinci che risale a secoli fa.
Sempre legato all'acqua c'è poi il grosso tema del Po, il grande cuore pulsante di quelle zone e fonte di vita per il 30% dell'agricoltura italiana, ma vittima di enormi problemi di siccità, sovra-sfruttamento e contaminazione di acqua salmastra che entra nel fiume attraverso la foce. Addirittura nel 2020 pare che l'acqua del mare si sia spinta a 30 km dalla foce. Ciò significa che quest'acqua salata ha invaso i pozzi e le falde, di conseguenza gli agricoltori non riescono a irrigare in modo efficace i loro raccolti. Per affrontare questo problema, quindi, hanno immaginato di installare una diga anti-sale che consenta di tenere separate acqua di mare e acqua dolce per adattare il fiume a futuri usi e convivere con questo fenomeno pericoloso per le loro attività."
Esempi concreti di adattamento puro, insomma, promossi da piccole realtà locali per riuscire a sopravvivere ai cambiamenti climatici. E a livello nazionale? L'Italia forse non è pronta a concretizzare l'idea che un cambiamento non solo è possibile, ma è necessario, e che per realizzarlo serve la volontà di investire denaro?
"L'Italia ha un evidente problema politico e culturale. A parole, infatti, la politica italiana si è resa conto che c'è un'emergenza, ma non vuole ancora chiamarla con il suo nome. A ciò si aggiunge una questione economica. C'è infatti molta confusione su quello che dovrebbe essere un budget da destinare ad azioni di adattamento che ormai sono improcrastinabili, che vanno pensate e messe sul campo. La quantificazione del denaro necessario a intervenire immediatamente su certi aspetti è una quantificazione che oscilla ancora molto. Basta pensare al Recovery Plan, che dovrebbe destinare dei fondi a questo tipo di azioni.
Questi fondi però dovrebbero ammontare a 100 o 200 milioni di euro, che sono pochissimi per arginare un problema di questa portata, per cui lo stesso Ministro Costa ha dichiarato servirebbero almeno 9-10 miliardi di euro. Per cambiare le cose abbiamo bisogno di azioni concrete sul territorio, di studio, di monitoraggio, di prevenzione e poi di azione. Non ci servono più azioni tappabuchi come alzare gli argini per evitare esondazioni, abbiamo bisogno di ripensare completamente i territori, costruire case in altri luoghi, modificare la percezione delle zone abitate rispetto al cambiamento della natura. Tutto questo ha un costo, bisogna vedere se la politica vuole farsi carico di questo costo."