Il coraggio di Anna Giordano, una vita passata a proteggere gli uccelli selvatici dai bracconieri in Sicilia

Nonostante minacce e intimidazioni, per 40 anni Anna Giordano non ha mai smesso di combattere in difesa della natura, con presidi sul territorio, in particolare nell’area dello stretto di Messina, che è una delle più importanti in Europa per il passaggio di uccelli migratori. “La soddisfazione più grande? Vedere i falchi pecchiaioli nidificare laddove prima venivano uccisi a fucilate”.
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Federico Turrisi 30 Novembre 2021

Si potrebbe rimanere delle ore ad ascoltare gli aneddoti raccontati da Anna Giordano. La "signora dei falchi", come l'hanno definita molti media. E in effetti la sua vita è intrecciata con quella di questi rapaci, e più in generale con quella di varie specie di uccelli che per troppo tempo sono stati abbattuti a colpi di fucilate dai cacciatori in Sicilia.

Classe 1965, Anna è da 40 anni impegnata in prima linea nella lotta contro il bracconaggio e contro chi non ha rispetto per la natura. Dapprima come attivista della Lipu (Lega Italiana Protezione Uccelli), e in seguito nel WWF, dal 1996, quando è diventata direttrice della riserva delle Saline di Trapani e Paceco, nella Sicilia occidentale. Lo è stata fino al 2003, dedicandosi poi ad altri incarichi.

"Diciamo che negli anni mi sono specializzata su Rete Natura 2000 e mi sono occupata molto di tutto ciò che interessava i siti protetti a livello comunitario", ci spiega. Non possiamo non ricordare, inoltre, che Anna ha contribuito a fondare nella "sua" Messina l'Associazione Mediterranea per la Natura, che ospita un centro di recupero della fauna selvatica e che rappresenta da anni un punto di riferimento per la tutela degli animali e del territorio.

L'area vicino allo Stretto di Messina è un punto strategico per le rotte degli uccelli migratori. Qui Anna e i suoi compagni di lotta hanno affrontato a viso aperto i bracconieri, organizzando fin dagli anni Ottanta "campi" per presidiare il territorio e garantire un volo sicuro agli uccelli che passavano da lì. Per il suo impegno, nel 1998 ha ricevuto il “Goldman Environmental Prize", una sorta di premio Nobel per la difesa dell'ambiente, e adesso è tra i finalisti del "Premio Ambientalista dell'anno – Luisa Minazzi" 2021. Il prossimo 3 dicembre, a Casale Monferrato, verrà svelato il nome del vincitore o della vincitrice.

Innanzitutto, che effetto fa essere tra i candidati a questo prestigioso riconoscimento?

Mi ha fatto molto piacere, sicuramente. Non me l'aspettavo, sono onorata che abbiano pensato a me e alla nostra battaglia. Uso la prima persona plurale, perché io ho avuto soltanto il merito di aver dato il la. Se fossi rimasta da sola, non avrei ottenuto gli stessi risultati. È stato un grande lavoro di squadra.

Quando si parla di bracconaggio, solitamente si pensa a Paesi lontani, all'Africa o all'Asia, e ad animali come i rinoceronti, gli elefanti o le tigri. Invece il fenomeno riguarda anche l'Italia.

Per l'esperienza che ho vissuto, conosco meglio ovviamente la realtà siciliana. E posso dire che il bracconaggio è qualcosa di molto vicino a noi. Inizialmente mi sentivo dire che la falconeria è "una tradizione". Ho capito, ma non per questo va tollerata. C'è poi una questione di mancanza di controlli: se oggettivamente non ci sono abbastanza forze dell'ordine per monitorare il territorio, è chiaro che il bracconiere sa di farla franca più facilmente. Senza dimenticare che stiamo pur sempre parlando di leggi specifiche da applicare, di specie protette da riconoscere.

Non è un caso che ti sia specializzata in scienze ornitologiche: ci vuole consapevolezza per condurre questo tipo di battaglie, giusto?

Assolutamente. Una cosa fondamentale, che ho dovuto imparare a mie spese, è che tu devi saperne sempre di più rispetto a chi combatti. Nei primi tempi non sapevamo dove passassero i falchi. Andando a cercare i luoghi dove sparavano i cacciatori, abbiamo scoperto che le rotte degli uccelli migratori cambiavano a seconda del vento (gli animali sfruttano infatti le correnti ascensionali per salire in quota e percorrere lunghi tratti del loro viaggio). Ma per prevenire e reprimere devi conoscere meglio di loro i luoghi dove andare. Il territorio è molto vasto, non puoi "inseguire" gli spari. E allora, a poco a poco, abbiamo imparato quali fossero le zone di transito. Ci è voluto tanto tempo e un impegno enorme.

Quand'è stata la prima volta che hai pensato che la tua "vocazione", per così dire, era quella alla difesa degli uccelli?

Non lo scorderò mai. Avevo 15 anni e, insieme a un mio amico di 14, ero salita al monte Ciccia, vicino a Messina. Ricordo di avere raccolto una cartuccia da terra, quando un gruppo di cacciatori ci notò. Erano tutti armati: fucili, pistole, coltelli. Ci circondarono e ci intimarono di andarcene. Io piangevo di rabbia. Avevo visto uccidere i miei primi falchi, gli esseri viventi che più amavo, perché mi hanno sempre affascinato. Scendendo dal monte, quando ho visto una farfalla posarsi su una cartuccia abbandonata, è come se avessi visto il segnale della vita che deve vincere sulla morte e ho giurato a me stessa che quella per i bracconieri sarebbe stata una delle ultime volte che facevano del male a questi meravigliosi animali. Ho avuto paura non una, 150 mila volte. Sarei una stupida a negarlo. Ma la rabbia ha superato sempre la paura.

Ma per quale motivo si sparava (e si spara tuttora) a questi uccelli, alcuni dei quali rarissimi?

La "tradizione", a cui accennavo anche prima, è nata in Calabria verso la metà dell'Ottocento. Quando c'era penuria di cibo, i falchi venivano uccisi anche per essere mangiati. I bunker di cemento costruiti in Sicilia per sparare appositamente agli uccelli risalgono invece quasi tutti agli anni Sessanta del secolo scorso. Poi ci sono altri versanti del bracconaggio, come quello relativo al traffico degli uccelli da richiamo oppure quello riguardante alla vendita di animali imbalsamati, di cui sono stata informata ma su cui non ho mai avuto un riscontro diretto.

Con i cacciatori ti sei confrontata diverse volte?

Non so dove abbia trovato l'energia allora. Ho passato anni, durante i campi, a spiegare a questa gente l'importanza dei rapaci e a cercare di mantenere la calma, perché non mancavano gli insulti e le minacce. Ricordo un giorno, a Castanea, in una zona molto vasta e difficile da controllare, dove gli uccelli passano molto bassi con lo scirocco e c'erano numerosi appostamenti. Sentendo gli spari, decisi di avvertire i carabinieri. Negli anni Ottanta i cellulari non esistevano ancora; bisognava prendere la macchina, cercare una cabina telefonica eccetera.

Quando sopraggiunsero i carabinieri, subito gli spari cessarono, perché i cacciatori sapevano che potevano essere arrestati. Si avvicinò a noi un cacciatore, che faceva da sentinella. Proprio in quel momento passò un capovaccaio, un rapace a forte rischio di estinzione, e cominciò a imprecare perché non potevano colpirlo essendoci anche i carabinieri. Insomma, gli avevamo rovinato la battuta di caccia. L'uccello si era salvato; ma se non fossimo intervenuti, avrebbe fatto molto probabilmente una brutta fine. Te ne potrei raccontare un'infinità di questi episodi.

Hai ricevuto una serie di intimidazioni, rischiando molto per proteggere la fauna selvatica…

E per far rispettare la legge! Questo è l'aspetto veramente sconcertante. Mi hanno messo i bastoni fra le ruote in ogni modo. Nel 1986 sono arrivati perfino a bruciarmi la macchina. Un'altra volta abbiamo trovato il cadavere di un falco pecchiaiolo con un messaggio indirizzato a me: "All'attenzione di quella troia di Anna Giordano. Questi uccelli si sono sempre sparati e sempre si spareranno". Col tempo sono diventata un'osservatrice sempre più attenta e ho "rotto le scatole" come si suol dire. Ho cominciato a fare denunce. Mi sono fatta conoscere, e in qualche modo mi sono fatta anche temere dai cacciatori. Ma appena muovi un passo fuori dal sentiero, sei subito notato. Il problema allora diventi tu, e non la legge.

In questi decenni di lotta, però, qualcosa è cambiato?

Alcuni cacciatori devono avere pensato che non ne valesse la pena, anche perché si rischia la galera. E in effetti alcuni ci sono finiti. Ma c'è stata sicuramente anche una trasformazione culturale. A questo proposito, ti racconto un altro episodio. Nel 2006, uno dei bracconieri che ci aveva dato più fastidio per anni e anni, anziché insultarmi, mi salutò e mi chiese se potevamo parlarci. Mi disse: "Nel 1981 ci avevi detto che prima o poi sarebbe arrivato il giorno in cui avremmo imparato ad amare questi animali, invece di ucciderli. Ebbene, sono venuto a dirti che avevi ragione". Ancora adesso mi viene la pelle d'oca a raccontarlo. Dopo di che aggiunse: "Prima a mio figlio dicevo «hai preso il fucile»? Adesso gli dico «hai preso il binocolo»?". Quel giorno capii che qualcosa stava cambiando.

Anche i progetti europei, come LIFE ConRaSi (Conservazione dei Rapaci in Sicilia), hanno aiutato ad arginare il fenomeno del bracconaggio?

Senz'altro. Pensa che fino a poco tempo fa in Sicilia le coppie di aquila del Bonelli erano una decina, adesso sono più di 40. È stato fatto un grande lavoro. Corale, come si diceva all'inizio. Dal primo campo di sorveglianza sono passati ormai 40 anni. E da quella esperienza ne sono nati altri con finalità simili. All'inizio eravamo in pochi, ma poi siamo diventati sempre più numerosi. Dai bunker non si spara più da anni. Ma attenzione, con questo non voglio dire che la piaga del bracconaggio sia completamente estirpata. Anzi, abbiamo avuto dei pericolosi casi di ritorno al passato in tempi recenti; motivo in più per non smettere mai di organizzare i campi. Però c'è una cosa più di tutte le altre che mi riempie il cuore di gioia, ed è vedere che adesso il falco pecchiaiolo nidifica nei luoghi dove prima veniva trucidato.

Foto fornite da Anna Giordano e Associazione Mediterranea per la Natura (MAN) – Centro di Recupero animali selvatici di Messina