
Per anni gli allarmi sul riscaldamento globale lanciati dagli scienziati sono rimasti inascoltati, limitati nelle aule universitarie o in ricerche pubblicate su riviste specializzate. Ma oggi la situazione è molto cambiata: milioni di persone scendono in piazza per chiedere ai governi e alle istituzioni mondiali di prendere subito misure concrete per fronteggiare i cambiamenti climatici e contenerne gli effetti. Tra i movimenti più attivi c'è Extinction Rebellion, che, ispirandosi ai modelli di protesta non-violenta di Gandhi e Martin Luther King, compie anche azioni eclatanti, come bloccare piazze centrali o aeroporti, per attirare l'attenzione sui temi ambientali e invitare la politica ad agire tempestivamente. Londra ne sa qualcosa: solo nella capitale inglese sono stati arrestati centinaia di attivisti.
Anche gli scienziati hanno deciso di schierarsi dalla parte di Extinction Rebellion e oltre 1000 studiosi, provenienti dalle università e dai centri di ricerca di tutto il mondo, hanno aderito alla campagna di disobbedienza civile, firmando un appello "a supporto dell'azione diretta non-violenta contro l'inattività dei governi sull'emergenza climatica ed ecologica". Tra di loro c'è anche l'italiano Giorgio Vacchiano, 39 anni, ricercatore in Gestione Forestale presso l’Università Statale di Milano e autore del libro "La resilienza del bosco" (in vendita a partire dal prossimo 19 novembre). Vacchiano è stato inserito dalla prestigiosa rivista scientifica Nature tra gli 11 migliori scienziati emergenti al mondo.
Siamo in una situazione che, come scienziati, ci rendiamo conto essere di emergenza, di grave minaccia al benessere e alla sopravvivenza di molte persone nel mondo, già oggi. In Italia forse non ci rendiamo conto pesantemente delle conseguenze del cambiamento climatico, se non in occasione di alcuni eventi estremi, come le ondate di calore della scorsa estate o la tempesta Vaia dell’ottobre dell’anno scorso. In altre parti del mondo, come l’Africa subsahariana o gli stati insulari del Pacifico, il fenomeno è molto più accentuato e costringe le persone a scegliere tra soccombere oppure migrare. I rifugiati climatici sono già oggi una realtà. Insomma, il cambiamento climatico è un problema serio e peggiorerà sempre più velocemente. Per questo le azioni che sta mettendo in atto Extinction Rebellion hanno il mio supporto. Possono avere un forte valore simbolico e richiamare l’attenzione su questo problema, come un campanello d’allarme, sia delle persone comuni sia dei politici.
Purtroppo è così. Il fallimento di 25 anni di accordi climatici è stato dovuto più a un gruppo di stati che ad altri. Sicuramente non si possono incolpare i paesi in via di sviluppo, almeno quelli piccoli. Il cambiamento deve avvenire in tutto il mondo. Anche l’Accordo di Parigi non è riuscito a stabilire un meccanismo top-down con un organismo di controllo che potesse monitorare i progressi e sanzionare chi veniva meno agli impegni presi. Si è solo riusciti a mettere in atto un meccanismo bottom-up: ci si affida alla buona volontà di ciascun paese nel voler ridurre le emissioni di gas serra. Ma non è molto efficace questo meccanismo. Siamo ancora lontani dagli obiettivi dell’accordo.
Introdurre una carbon tax, un sovrapprezzo sulle emissioni di gas serra che sia commisurata ai danni economici che questi gas in eccesso provocano. Una recente ricerca pubblicata su Nature ha calcolato che siano pari a circa 400 dollari per ogni tonnellata di CO2. Sono pochissimi gli stati che hanno uno schema di tasse sul carbonio. Uno di questi è la Svezia, che è riuscita ad avere una crescita del Pil e dell’occupazione, diminuendo le emissioni. Qual è il segreto? Le entrate che si ricevono grazie alla carbon tax vanno reinvestite per facilitare la vita alle fasce più svantaggiate della popolazione. Ricordate i gilet gialli in Francia? L’aumento del prezzo della benzina, secondo una logica simile a quella della carbon tax, aveva scatenato la rivolta delle categorie più in difficoltà, che non potevano più permettersi il carburante. Andrebbe fatta pressione su chi produce, non su chi consuma, così da indirizzarlo verso soluzioni più sostenibili. Se produrre qualcosa di inquinante comincia a costare di più sono sicuro che la tecnologia e le aziende si ingegnerebbero per trovare un’altra strada. E le risorse vanno utilizzate per sostenere le fasce più deboli che non si possono permettere un bene più caro o per spostare i consumi verso una maggiore compatibilità con l’ambiente. La parola chiave dev'essere equità.
Chi propone piani di riforestazione, lo fa in buona fede perché, in qualsiasi punto del mondo si piantino, gli alberi assorbono CO2 atmosferica. Il vero problema è la deforestazione nelle aree tropicali. La perdita dell’Amazzonia e delle altre foreste pluviali non è solo una perdita di serbatoi di carbonio, ma una perdita di biodiversità, che è un problema ancora più grave della crisi climatica. Se ne parla molto meno, perché si vedono meno gli effetti. Non è solo un fatto di conservare specie esotiche. Un ecosistema senza alcune specie è un ecosistema che funziona meno anche per noi: ci dà meno cibo, meno acqua, meno protezione. E questo riguarda la nostra stessa sopravvivenza. Se quindi si distruggono parti di foresta tropicale, che è l’ecosistema più biodiverso del pianeta, insieme alle barriere coralline, e al loro posto si pianta un bosco che, se va bene, avrà due o tre specie, come equivalenza non ci siamo proprio. Per quanto riguarda la CO2 magari si riesce ad andare in pareggio, ma la biodiversità non si ripristina. Recentemente il nostro ministro dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, a Bruxelles, durante un incontro sulla strategia forestale europea ha fatto una dichiarazione interessante: sarebbe utile pensare come Unione Europea a delle filiere agroalimentari “deforestation free”, riconoscendo che diversi nostri prodotti sono corresponsabili della deforestazione. Bisogna risolvere il problema alla fonte, con controlli, divieti e incentivi.