L’educazione alla sostenibilità non riguarda solo i giovani: che ruolo hanno allora le università?

Lo abbiamo chiesto a Gabriella Calvano, coordinatrice del gruppo di lavoro sull’educazione della RUS, Rete delle Università per lo Sviluppo Sostenibile, che ha sottolineato il ruolo degli atenei nella costruzione di conoscenza assieme ai territori. Calvano è anche ospite dell’evento Green Blue Days a Napoli, di cui Ohga è media partner.
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Giulia Dallagiovanna 29 Settembre 2023
Intervista alla prof.ssa Gabriella Calvano Ricercatrice in Pedagogia generale e sociale all'Università degli studi di Bari "Aldo Moro" e coordinatrice del gruppo di lavoro Educazione della Rete delle Università per lo Sviluppo Sostenibile.

"Non sono d'accordo con chi sostiene che vadano educati allo sostenibilità solo i giovani. È come se scaricassimo sulle nuove generazioni responsabilità che invece sono anche nostre". Gabriella Calvano è ricercatrice in Pedagogia generale e sociale all'Università degli studi di Bari "Aldo Moro" e coordinatrice del gruppo di lavoro Educazione della Rete delle Università per lo Sviluppo Sostenibile. La RUS è una realtà nata nel 2016 e che oggi include più di 80 atenei su tutto il territorio italiano, allo scopo di condividere pratiche e idee che favoriscano i processi di transizione ecologica del mondo universitario, secondo una prospettiva che riporta al centro la responsabilità sociale degli atenei rispetto al territorio.

"È la terza missione delle università: costruire conoscenza assieme ai territori. Non semplicemente individuando soluzioni ai bisogni, ma anche promuovendo momenti di confronto da cui nascano condivisione delle conoscenze, trasferimento delle tecnologie e proposte per risolvere i problemi che emergono", precisa Calvano, che in questi giorni è ospite della terza edizione di Green Blue Days presso Palazzo Ravaschieri a Napoli, evento di cui Ohga è media partner.

Quando si parla di educare alla sostenibilità, quali sono i principali ostacoli che si incontrano?

Abbiamo tutti una difficoltà oggettiva a modificare il nostro modo di vivere e le nostre abitudini. Ma c'è anche un problema che i teorici della complessità provano a scardinare da anni e cioè apprendiamo male. Siamo abituati a imparare per discipline separate fin da quando frequentiamo le scuole medie. Anche quando discutiamo di cambiamenti climatici non guardiamo mai alla questione nella sua globalità, ma solo in riferimento alla devastazione del capitale naturale. Non facciamo riferimento a studi sugli aspetti sociali, migratori o geopolitici.

Educazione è un termine che sembra rimandare a messaggi rivolti principalmente ai giovani. A fronte di tutti i movimenti ambientalisti che sono nati negli ultimi 5 o 6 anni e delle iniziative che studenti delle superiori o universitari stanno portando avanti in ambito di sostenibilità e rispetto del Pianeta, possiamo dire che in questo caso sono più le vecchie generazioni a dover essere educate?

Da un lato sicuramente sì. Le generazioni precedenti non hanno certe attenzioni e non affrontano determinati argomenti, al di là delle dovute eccezioni. Dall'altro lato, però, è giusto precisare che, oltre a un gruppo di giovani che a livello globale si impegna ogni giorno per difendere i diritti del Pianeta, esiste anche un'altra parte che ancora non ci crede al 100% e che quindi non riesce a modificare il proprio modo di vivere. Dovremmo guardare a questo processo come a una crescita continua in cui è importante che le generazioni dialoghino per andare avanti insieme.

Nel 2018 ha vinto il "Premio italiano per la Pedagogia" e tra le motivazioni si legge come il suo lavoro abbia "aperto la strada a un nuovo interessante filone di ricerca in campo pedagogico". A distanza di sei anni e di eventi storici come una pademia e, appunto, l'emergere di movimenti ambientalisti formati da studenti, quanto è stato fatto e quanto resta da fare in ambito di educazione alla sostenibilità?

È fatto abbastanza, ma rimane ancora tantissima strada da percorrere. Manca, ad esempio, una parte di studio sulle pratiche educative di sostenibilità all'interno degli atenei e un filone di ricerca relativo al ruolo educativo degli atenei stessi. Bisognerebbe comprendere e studiare di più il modo in cui i giovani percepiscano la realtà universitaria, i corsi che frequentano e noi in quanto figure educative funzionali.

Il tempo a disposizione è poco e fare ricerca in una prospettiva interdisciplinare non è semplice.

Posso affermare con una buona dose di conspevolezza che c'è ancora tanto da fare. Ma il tempo a disposizione è poco e fare ricerca in una prospettiva interdisciplinare non è semplice. Spesso significa dover essere pronti a fare un passo indietro rispetto alle proprie convinzioni disciplinari.

Anche la figura stessa del docente dovrebbe essere approfondita?

Sì. Dovremmo riscoprirci proprio in quanto docenti come figure educative della sostenibilità. Si fa ancora poco per capire quali siano le competenze di sostenibilità su cui dobbiamo insistere a livello universitario e su come queste possano essere funzionali e utili per il futuro.

Rispetto all'attenzione alla sostenibilità, a che punto sono gli atenei italiani?

È un cammino lungo. Si è cominciato a parlare di atenei sostenibili e a interrogarsi sul loro ruolo in questo ambito tra il 1990 e il 1991. Non è un percorso che dipende solo dall'impegno del singolo ma una questione di volontà di tutte le parti coinvolte, quindi anche di governance e stimoli territoriali. La componente studentesta, poi, ha un ruolo determinante.

In Italia alcuni ateni hanno ricevuto una spinta maggiore, ma il vero salto di livello è arrivato con l'approvazione dell'Agenda 2030 nel 2015. Non a caso, l'anno successivo è nata la RUS. C'è stato uno stimolo maggiore a impegnarsi per la condivisione di modalità di stesura di documenti e inventari che invogliassero a farlo anche chi non aveva ancora iniziato.