Ma in Italia a che punto siamo con la ricerca sul nucleare e fra quanto è pensabile attuare il mix energetico? 

Con Alessandro Dodaro, Direttore Dipartimento fusione e tecnologie per la sicurezza nucleare presso ENEA, abbiamo parlato dei progressi sulla tecnologia nucleare, della ricerca e della possibilità di realizzare il nucleare in Italia.
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Francesco Castagna 28 Settembre 2022
Intervista a Alessandro Dodaro Direttore Dipartimento fusione e tecnologie per la sicurezza nucleare presso ENEA

Ci sono due date che in Italia e sono strettamente collegate tra loro, anche se non proprio vicine temporalmente. L’8 e il 9 novembre 1987, quando gli italiani si recarono alle urne per votare tre dei cinque referendum abrogativi che riguardavano la situazione del nucleare in Italia, e l'11 marzo 2011, quando in Giappone, a Fukushima, si è verificato un incidente nella centrale nucleare.

Anche se, al momento della scossa, il sistema di sicurezza antisismico della centrale disattivò all'istante tutti i reattori con la procedura di SCRAM attivata automaticamente, Arpa riporta che nei giorni a seguire "I rilasci hanno interessato il territorio del Giappone, in particolare l'area circostante l'impianto di Fukushima, e poi sono stati trasportati e dispersi fino in Europa, dove – dopo le prime misure in California il 18 marzo – tracce di I-131 sono state rilevate a partire dal 24 marzo. Successivamente sono state evidenziate concentrazioni di Cs-134 e Cs-137 nel particolato atmosferico. Tra il 24 e il 30 marzo è stata registrata in alcuni paesi europei anche la presenza in aria di gas nobili (xenon-133) in concentrazione analoga a quella rilevata di I-131".

L'agenzia italiana riporta che in Italia la presenza di I-131  è stata di piccolissime quantità (iodio 131, un isotopo radioattivo) in aria, pervenute lunedì 28 marzo dalla Rete nazionale di sorveglianza della radioattività ambientale (RESORAD).

Dopo 11 anni il Giappone ha deciso di riaccendere i reattori nucleari, ma il Paese era pronto avendo già a disposizione i reattori. In Italia invece la situazione è diversa, manca una filiera (te ne abbiamo parlato in questo articolo) e un consenso popolare. Ne abbiamo parlato con Alessandro Dodaro, Direttore Dipartimento fusione e tecnologie per la sicurezza nucleare presso ENEA.

Direttore Dodaro, a che punto siamo con la ricerca sul nucleare?

Negli ultimi dieci anni le criticità emerse nella realizzazione delle grandi centrali nucleari europee di terza generazione (gli EPR di Flamanville in Francia, Okiluoto in Finlandia e Hinkley Point nel regno Unito, tutte caratterizzate da notevoli aumenti dei costi e dei tempi di realizzazione rispetto a quanto preventivato) hanno orientato la ricerca scientifica verso due nuove filiere che potrebbero far da ponte fra la terza e la quarta generazione di reattori nucleari: gli Small Modular Reactors (SMR) e gli Advanced Modular Reactors (AMR).

Gli SMR sono del tutto equivalenti ai reattori di terza generazione in termini di combustibile (uranio arricchito), di fluido refrigerante (acqua) e di sicurezza, ma hanno una taglia decisamente più piccola (intorno ai 300 MW elettrici contro i 1500-1800 MW elettrici delle centrali EPR. Sono stati progettati molti modelli: per citarne alcuni, l’americano NuScale (60 MW elettrici), il francese NUWARD (coppia di reattori da 170 MW elettrici ciascuno), il cinese AP100 (125 MW elettrici) e il giapponese DMS (300 MW elettrici) sono già pronti per essere messi sul mercato.

Gli AMR, anch’essi caratterizzati da piccola taglia, sono però più simili ai reattori di quarta generazione: l’innovazione principale sta nel combustibile (uranio naturale) e nel fluido refrigerante (generalmente un metallo liquido). Al momento ci sono diversi progetti interessanti e alcuni dimostratori in corso di realizzazione (ad esempio il russo BREST, da 300 MW elettrici) o di progettazione e licensing (il reattore ALFRED, da 100 MW elettrici, che sarà realizzato in Romania nei prossimi anni). Questa tipologia di reattori non è ancora matura per essere messa sul mercato, ma è prevedibile che i primi reattori commerciali vedranno la luce entro 15 anni.

Ci sono progressi sulla fusione nucleare? 

Ad oggi ci sono due principali scuole di pensiero sulla fusione. Uno è il modello europeo, condiviso anche da Cina, Corea, Giappone, Russia e in parte dagli Usa. Prevede la costruzione di un reattore di grandi dimensioni che utilizzi campi magnetici medi per gestire il plasma che circola nel tokamak.

Questa strada prevede la realizzazione di un primo rettore dimostrativo in grado di immettere energia in rete intorno al 2050. Una volta che si arriverà a questo punto, bisognerà rendere l’energia da fusione competitiva dal punto di vista economico.

Il reattore DEMO che stiamo progettando e che verrà costruito costerà tanto quindi l’energia prodotta non sarà molto competitiva. Da quel momento in poi quindi si tratterà di ottimizzare un processo: credo che nei successivi 10-20 anni si potrebbe avere energia elettrica da fusione.

L’altro modello è quello americano, che è basato su un’ipotesi diversa, cioè costruire macchine più piccole che ridurrebbero i costi di realizzazione e utilizzare campi magnetici molto più elevati.

Secondo questo modello, nel 2033 si dovrebbe avere il primo reattore dimostrativo per poi procedere con l’ottimizzazione dei processi per arrivare al 2050 con la fusione come fonte energetica disponibile per tutti.

Ho un po’ di perplessità su tempi così stretti perché i problemi tecnici legati agli alti campi magnetici si uniscono a quelli già noti della fusione stessa: è estremamente sfidante ma la collaborazione a livello globale è continua e salda. Non è una gara a chi fa prima, ed io sarei il primo a festeggiare nel veder smentite le mie perplessità.

Viene definita come energia pulita, ma quali sono ancora le problematiche da risolvere sulle attuali tecnologie?

Di recente la Commissione Europea ha sancito l’ingresso ufficiale dell’energia nucleare nel novero delle tecnologie della Green Taxonomy (si definisce tassonomica una tecnologia che sia in linea con gli obiettivi climatici e ambientali dell’UE), semplificando così gli investimenti nel settore perché sono considerati sostenibili per l’ambiente. In effetti, le centrali nucleari durante il loro normale funzionamento non emettono CO2, e non hanno alcun impatto sull’ambiente circostante.

L’obiezione più comune, naturalmente, riguarda la possibilità di incidenti che, come dimostrano i casi di Chernobyl e Fukushima, hanno avuto un impatto, più o meno grave, sull’ambiente.

Occorre sottolineare, però, che i due incidenti, fra i quali solo Chernobyl ha causato vittime, sono gli unici episodi che hanno avuto un impatto significativo sull’ambiente in circa 20.000 anni-reattore (l’insieme delle centrali nucleari che sono state o sono tuttora esercite nel mondo è equivalente ad un reattore che abbia funzionato ininterrottamente per 20.000 anni): la sicurezza delle centrali nucleari è dimostrata dal fatto che sono pochissime le tecnologie che causano meno di un decesso all’anno.

La seconda obiezione riguarda la gestione dei rifiuti radioattivi, principalmente quelli a lunga vita, che necessitano di centinaia di migliaia di anni per diventare innocui: è certamente un problema sia economico (anche se il costo di smaltimento dei rifiuti radioattivi è incluso nel prezzo del kWh nucleare, che resta molto competitivo rispetto alle altre fonti non fossili) che tecnologico (garantire la sicurezza di una infrastruttura per tempi così lunghi non è possibile).

Le centrali attuali e gli SMR, che usano come combustibile l’Uranio arricchito, continueranno a produrre questa tipologia di rifiuti durante tutto il loro ciclo di funzionamento; i Paesi che hanno queste centrali sul proprio territorio dovranno, quindi, realizzare dei depositi geologici sul modello di quello finlandese: si tratta di infrastrutture molto costose che affidano il compito di mantenere in sicurezza i rifiuti a lunga vita a conformazioni geologicamente stabili (miniere di sale, complessi rocciosi o argillosi).

Le centrali di quarta generazione, così come gli AMR, invece, minimizzano la produzione di rifiuti a lunga vita perché utilizzano Uranio naturale, idealmente riutilizzabile all’infinito, risolvendo, o quantomeno riducendo sensibilmente la problematica.

A mio avviso il mix energetico ideale è costituito da almeno un 70% di energia prodotta da fonte rinnovabile e da un 30% prodotto con una fonte che non sia soggetta alle condizioni climatiche o all’alternanza giorno-notte.

Nei paesi dove l’energia nucleare è utilizzata come fonte di produzione di energia elettrica la quota di energia da fonte rinnovabile può essere affiancata dall’energia prodotta con le centrali nucleari: si risolve il problema dell’accumulo di energia quando le rinnovabili non ci sono e permette l’eliminazione completa dei combustibili fossili, compreso il gas naturale che, sia pure in quantità ridotta rispetto al carbone, emette CO2 nel processo di combustione.

Riguardo ai tempi, è difficile stimare se sia possibile raggiungere entro il 2050 un obiettivo così sfidante per le rinnovabili, soprattutto se si considera la crescente domanda di elettricità conseguente all’aumento di elettrificazione richiesta dalla riduzione progressiva del ricorso ai combustibili fossili.

Nel frattempo ci sono soluzioni alternative o sembra essere l'unica strada?

Nel 2021 il consumo di energia elettrica in Italia è stato di circa 320 TWh: la produzione da rinnovabili tradizionali (idroelettrico, eolico e fotovoltaico) ha coperto circa il 28 %, l’energia diretta importata è stata di poco superiore al 14 % e tutto il resto è stato prodotto con combustibili, per lo più gas naturale (in gran parte importato: oltre il 95 % proveniva dall’estero). Ipotizzando che tutti i combustibili diversi dal gas naturale, carbone compreso, siano reperiti sul territorio nazionale, risulta evidente che importiamo energia elettrica, o le materie prime per produrla, per oltre il 55 % del fabbisogno.

È indubbio che per raggiungere gli obiettivi che l’Italia e l’Europa si sono posti in tema di transizione energetica, occorre un massiccio incremento della produzione da rinnovabili, ma ci sono alcuni elementi su cui porre particolare attenzione:

l’idroelettrico, che produce quanto eolico e fotovoltaico assieme, è ormai arrivato a saturazione e non è pensabile un aumento significativo della produzione;eolico e fotovoltaico, ammesso che possano quintuplicare la produzione nei prossimi anni (ed arrivare almeno al 70% del fabbisogno), per garantire continuità nel dispacciamento necessitano di impianti di pompaggio per permettere l’accumulo, almeno se si vuole evitare il ricorso alle batterie (opzione poco ambientale, visti i materiali utilizzati e le dimensioni che dovrebbero avere per garantire l’accumulo di enormi quantità di energia); nel “Documento di Descrizione degli Scenari 2019”, però, appare chiaro che oggi si può arrivare ad accumulare al massimo 7 TWh e non è obiettivamente immaginabile che la rete italiana possa crescere al livello tale da consentire gli accumuli necessari;due delle condizioni generalmente assunte per la transizione energetica sono l’elettrificazione del parco auto e l’eliminazione del gas per uso residenziale: andare in questa direzione farà aumentare notevolmente il fabbisogno energetico del Paese rendendo ancora più critiche le problematiche evidenziate al punto precedente.

Da quanto detto risulta evidente che la scarsa disponibilità di materie prime nel nostro Paese continuerà a imporci il ricorso all’importazione massiccia di energia elettrica, nella speranza che ci siano Paesi in grado di produrne, con tecnologie carbon-free come il nucleare, a sufficienza per esportarla.

In questa campagna elettorale si è parlato poco di energia idroelettrica e geotermica: crede siano tecnologie da portare avanti in Italia? Si possono sostituire con il nucleare?

L’idroelettrico è la nostra salvezza, è la fonte rinnovabile che ci fornisce la maggior parte di energia pulita che abbiamo. L’idroelettrico rappresenta il 14,4% del fabbisogno energetico italiano.

Tutte le energie rinnovabili devono essere massimizzate e rese più efficienti, il problema con l’idroelettrico è che abbiamo saturato il territorio italiano. Oggi non abbiamo più così tanto margine per aumentare il carico di produzione. A partire dagli anni ’60 in poi abbiamo riempito l’Italia di dighe e impianti che oggi fortunatamente ci garantiscono oltre il 14% del fabbisogno.

A questo però va aggiunto quel che si riesce a produrre con eolico, fotovoltaico, geotermico. Credo che una soluzione sarebbe coprire tutti i tetti degli edifici con pannelli per concretizzare l’idea della microproduzione domestica: permetterebbe di abbassare il fabbisogno di produzione industriale di energia.

Dobbiamo arrivare almeno al 70% di energia prodotta con le rinnovabili ma quel 30% mancante non lo si può comprare da paesi che già producono energia rinnovabile?

Per un periodo abbiamo comprato energia rinnovabile dalla Francia. Sulla bolletta infatti c’era scritto che il 70% dell’energia venduta all’operatore era rinnovabile. Che si riesca a distinguere l’elettrone prodotto da fonti rinnovabili o dal nucleare però è un’ipotesi priva di fondamento: noi acquistavamo energia dalla Francia perché era “rinnovabile”. Se poi in Francia usanovil nucleare per produrre energia a noi non interessa, ciò che conta per noi è che arrivi l’energia necessaria per ridurre il 60% di energia prodotta da combustibili fossili.

Ricordiamo poi che nessun paese al mondo oggi può produrre energia rinnovabile in quantità sufficienti per un proprio utilizzo interno e per la vendita all’estero.