Quanta CO2 emette un prodotto alimentare? Ecco perché l’etichetta climatica non sarebbe una cattiva idea

Sul modello del Nutriscore, la Francia sta sperimentando l’Ecoscore, una sorta di etichetta a semaforo che fornisce ai consumatori informazioni sull’impatto ambientale dei cibi. Lo scopo è quello di fornire uno strumento intuitivo per orientarsi verso una dieta più sostenibile. Non sempre però è facile calcolare l’impronta di carbonio di un alimento, perché bisogna considerare una serie di fattori.
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Federico Turrisi 23 Luglio 2021

Anche le nostre scelte alimentari hanno un impatto sull'ambiente. Ma qual è il grado di consapevolezza nei consumatori? Dovremmo infatti sapere bene ormai che una bistecca di manzo, per esempio, "costa" molto di più, in termini di emissioni di gas serra e di consumo di risorse naturali (acqua e suolo in particolare), rispetto a un piatto di lenticchie.

Quando parliamo di alimentazione sana, parliamo soprattutto di moderazione e di equilibrio, giusto? Ecco, lo stesso principio vale quando si parla di sostenibilità a tavola. Se è cosa e buona giusta ridurre – non per forza eliminare del tutto – il consumo di carne rossa, è perché, oltre a tutelare la nostra salute, dobbiamo tutelare l'ambiente.

A questo punto potrebbe sorgere un dubbio. Se vogliamo cercare di seguire una dieta bilanciata, possiamo sempre leggere bene le indicazioni nutrizionali riportate in etichetta: la quantità di calorie, di carboidrati, di grassi saturi eccetera. Ma se vogliamo essere attenti anche all'impatto ambientale di un prodotto alimentare, come facciamo a orientarci? Proprio per fornire questo tipo di informazione, in Francia è stato introdotto recentemente l'Ecoscore, un sistema di etichettatura fronte-pacco a semaforo, che riprende il modello del Nutriscore. Cinque lettere e cinque colori: dalla A verde scuro, dove ci sono gli alimenti più ecologici, alla E rossa, dove ci sono quelli più dannosi per l'ambiente.

Ma come viene stabilito se un prodotto è nella fascia verde anziché in quella rossa? Per calcolare il punteggio, l'Ecoscore parte innanzitutto dall’analisi del ciclo di vita (Life cycle assessment o Lca) del prodotto, basata sul database Agribalyse dell’Ademe, l'agenzia francese per la transizione ecologica. Ma vengono poi presi in considerazione anche altri aspetti come il sistema di produzione (per esempio si va a vedere se il prodotto è biologico, equo-solidale o possiede altre certificazioni di sostenibilità) e gli impatti ambientali legati all'imballaggio e al trasporto.

Ovviamente non mancano le voci critiche nei confronti di questa metodologia. Per l'ong Ciwf France, che si batte per il benessere degli animali da allevamento, l'Ecoscore, così com'è congegnato, è incompleto e addirittura rischia di favorire i modelli intensivi, perché non tiene conto in maniera adeguata dei danni arrecati alla biodiversità e dell'impatto legato all'utilizzo di pesticidi e antibiotici.

Nel frattempo, lo scorso 30 giugno, è stata registrata dalla Commissione Europea una iniziativa dei cittadini europei (Ice) che chiede di imporre l'uso dell'Ecoscore tra tutti i Paesi membri dell'Ue. L'obiettivo, si legge in una nota, è triplice:

  • consentire ai consumatori europei di fare scelte ponderate che tengano conto dell'impatto ambientale dei prodotti in vendita, sulla base di un'indicazione chiara e affidabile;
  • incoraggiare gli operatori a ridurre l'impatto ambientale dei loro prodotti, dando risalto al contempo a quelli più rispettosi dell'ambiente;
  • introdurre un'etichetta uniforme basata su un calcolo standardizzato sull'intero territorio europeo, in modo da evitare confusione alla luce del proliferare delle etichette ambientali.

La raccolta firme è iniziata proprio oggi 23 luglio, ma intanto il dibattito è più aperto che mai. Serve davvero l'etichetta climatica? E come si può armonizzare a livello europeo?

Per una dieta più sostenibile

"Penso che il modello francese sia replicabile in altri Paesi europei. Un sistema di etichettatura sull'impatto ambientale è sicuramente utile, ed è giusto che i cittadini siano informati. Bisogna iniziare a porre questo tema, per esempio nelle mense scolastiche". A parlare è Riccardo Valentini, professore di ecologia all’Università della Tuscia e coordinatore del progetto europeo SU-EATABLE LIFE, che mira a promuovere l’adozione di menu sani e sostenibili, partendo dalle mense aziendali e universitarie.

Per Valentini sono sostanzialmente due i requisiti di cui deve essere in possesso l'etichetta climatica. "Prima di tutto deve essere costruita su una base scientifica rigorosa. Di recente, il nostro gruppo di ricerca ha pubblicato sulla rivista Nature un nuovo database dove ci sono più di 3 mila indicatori per il calcolo sia dell'impronta di carbonio sia dell'impronta idrica dei prodotti alimentari, con un’analisi statistica molto dettagliata".

"L'etichetta climatica deve basarsi su una base scientifica rigorosa e fornire le informazioni in maniera chiara e intuitiva"

"In secondo luogo – prosegue il professor Valentini – bisogna rappresentare queste informazioni in maniera chiara e intuitiva, avendo come riferimento un valore medio". Per quanto riguarda i nutrienti, per esempio, abbiamo l'RDA, ovvero la dose giornaliera raccomandata. Un metro di riferimento andrebbe trovato anche per l'impatto ambientale dei cibi. "Il cittadino-consumatore potrebbe non avere un’idea di quanto siano 20 chilogrammi di CO2 equivalente per produrre un chilo di carne bovina. Espresso in valori assoluti, il dato potrebbe non risultare chiaro".

L'etichetta climatica, insomma, ha tutte le carte in regola per costituire un valido strumento per orientare i consumatori verso una dieta più sostenibile. Domanda: ma non si finisce così per scaricare su di loro la responsabilità, mentre i produttori continuano a lavarsene le mani? "In un certo senso, il dubbio è legittimo. Ma dobbiamo ragionare in un’ottica di transizione ecologica", ribatte Valentini. "Non possiamo certo togliere da un giorno all’altro le carni rosse dal commercio. Si possono consumare, ma con moderazione. Forse in questo momento la cosa migliore è fornire al consumatore tutte le informazioni necessarie per indirizzare le sue scelte verso certi tipi di consumi: per esempio, occorre dare maggiore spazio ai prodotti vegetali e cercare di ridurre quelli di origine animale. L’industria alimentare in qualche modo dovrà adeguarsi alle esigenze del mercato e riceverà la spinta ad essere più sostenibile".

C'è poi un'ultima questione, da non sottovalutare affatto. "I piatti devono essere belli, appetitosi", aggiunge Valentini. "Seguire una dieta sostenibile non deve essere visto come un sacrificio. Può sembrare una frivolezza, ma il fatto di coinvolgere chef con delle ricette creative può avere un forte valore comunicativo. Mangiare deve essere un piacere per gli occhi e per il palato".

A portata di app: l'esperimento di Setai

Fornire le informazioni in maniera chiara e intuitiva, abbiamo detto poc'anzi. È proprio questo l'obiettivo di Setai, l'applicazione sviluppata da due ragazzi veneti trapiantati a Londra, Edoardo Danieli e Andrea Longo, che aiuta a "misurare" l'impatto ambientale dei prodotti alimentari che compriamo al supermercato.

Il suo funzionamento è estremamente semplice. Basta scannerizzare con il proprio smartphone l'etichetta del prodotto che si vuole acquistare, e l'app ti fornisce da una parte un "Health Score", ovvero una sorta di indice di salubrità, con una panoramica sui valori nutrizionali (calorie, grassi saturi, zuccheri, fibre eccetera). Dall'altra – ed è questa la novità – è possibile trovare un "CO2 Score", ovvero l'impronta di carbonio del prodotto in questione. Per questi due parametri viene assegnato un punteggio, da 1 a 10, e un colore, dal verde al rosso. In più, le emissioni di CO2 vengono rappresentate attraverso delle semplici equivalenze; il valore viene cioè rapportato a un gesto quotidiano come guidare un’automobile per tot chilometri o lasciare accesa una lampadina a LED per tot giorni, proprio per aiutare a far capire l'impatto sull'ambiente del cibo che scegliamo.

Edoardo Danieli e Andrea Longo

"Sono indicazioni di massima, ma comunque basate su dati scientifici", spiega Edoardo Danieli. "Per quanto riguarda la parte health, facciamo riferimento a degli algoritmi sui nutrienti, come fanno anche altre app sul mercato. Il sistema Nutriscore vale per il 60% ai fini della nostra valutazione. Il restante 40% è dato invece dalla classificazione NOVA sviluppata dalle Nazioni Unite, che ordina i prodotti in base a quanto sono processati".

E per quanto riguarda invece la parte relativa all'impronta di carbonio? "Abbiamo sviluppato una metodologia insieme a E-Ambiente Group, società leader in Italia per la consulenza energetica e ambientale", prosegue Edoardo. "Per ogni prodotto assegniamo una categoria merceologica, per esempio carne di manzo, e un valore medio. Sfruttiamo database, pubblici e privati, riconosciuti a livello europeo, come Ecoinvent, oltre a informazioni provenienti da studi scientifici, come la metanalisi effettuata dai due ricercatori Joseph Poore e Thomas Nemecek, rispettivamente dell'Università di Oxford e del centro di ricerca Agroscope di Zurigo. Infine, valutiamo anche il packaging e, laddove sia possibile, l’origine degli ingredienti, aggiustando così il dato medio per dare poi il risultato finale all’utente quando apre l'app".

Attualemente l'applicazione è disponibile soltanto nel Regno Unito – dovrebbe sbarcare in Italia per la fine dell'anno – e raccoglie le informazioni di circa il 70% dei prodotti reperibili nei supermercati britannici. Utilizzandola si scoprono anche aspetti a cui forse non prestiamo la dovuta attenzione.

"Ci sono diversi miti da sfatare. Molti pensano che il trasporto sia una delle componenti principali quando si parla di emissioni di CO2 legate all'industria alimentare. Abbiamo constatato che questo è vero nel 6% dei casi", aggiunge Edoardo. "In Inghilterra il pomodoro, per esempio, viene coltivato in serre riscaldate e ha un impatto ambientale di gran lunga maggiore rispetto a quello prodotto in Spagna, dove c'è un clima più favorevole. Oppure prendiamo il caso dei gamberetti che arrivano dal sud est-asiatico: il loro impatto non è determinato tanto dal trasporto fino alla Gran Bretagna, quanto dal fatto che per fare spazio agli allevamenti vengono distrutti ettari di foreste di mangrovie, fondamentali per l'equilibrio degli ecosistemi".

Naturalmente le istituzioni (a livello europeo, e non solo) devono fare la loro parte affinché i produttori, e in particolare le multinazionali, adottino pratiche più sostenibili. Ma l'auspicio è che anche dai consumatori arrivi una spinta importante per una sempre maggiore trasparenza della filiera. Solo così potremo essere davvero consapevoli di quanta anidride carbonica si nasconde dietro ai nostri piatti.