Quanto ne sai di moda sostenibile? 5 parole chiave per comprendere questo mondo

Quanti danni facciamo all’ambiente semplicemente vestendoci? Tanti se cediamo a un modello di produzione e consumo come quello su cui si basa il fast fashion, che sfrutta per di più manodopera a basso costo nei paesi in via di sviluppo. Pochi se riusciamo a fare acquisti consapevoli: ecco un piccolo dizionario per vederci un po’ più chiaro.
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Federico Turrisi 10 Luglio 2020

L'industria della moda – è risaputo – è uno dei settori che hanno il maggiore impatto sull'ambiente. Per dirla in termini più tecnici, ha un'impronta ecologica considerevole. Non parliamo solo dell'utilizzo di sostanze chimiche potenzialmente inquinanti (coloranti artificiali, ftalati, solventi clorurati eccetera) e delle emissioni di gas climalteranti, ma parliamo anche di una filiera dove il riciclo è particolarmente difficoltoso.

Vuol dire che per vestirsi è inevitabile mettere da parte le proprie preoccupazioni legate alla crisi climatica e alla tutela del nostro pianeta? Non disperare, le alternative sostenibili esistono. Basta conoscerle. Tanto per fare un esempio, puoi prendere in considerazione il mercato dell'usato, una sorta di ricchissimo mondo parallelo dove è possibile acquistare prodotti di seconda mano, risparmiando anche soldi. Metti da parte poi la pigrizia: anziché comperare il primo prodotto che ti consiglia Amazon, prenditi del tempo per cercare capi di abbigliamento realizzati con materiali più rispettosi dell'ambiente da aziende che si dimostrano attente sugli aspetti etici ed ecologici.

Ricorda che siamo pur sempre noi consumatori a fare la differenza, siamo noi il motore del cambiamento che può spingere le case di moda ad abbracciare in maniera più convinta la fede della sostenibilità ambientale e sociale. Per questo occorre partire innanzitutto dalla consapevolezza. Avere bene chiaro in mente l'argomento in questione è il primo passo per orientare le tue scelte e fare acquisti in linea con un modo di vivere green.

Abbiamo dunque individuato per te 5 parole che possono rappresentare una piccola summa della moda sostenibile. Inoltre, ci siamo fatti aiutare da Elena Picci, sustainability manager di Renoon, una giovane start-up che ha reso disponibile sul suo sito un glossario di moda sostenibile. In rete è possibile consultare anche il glossario realizzato da Condé Nast, in collaborazione con il Centre for Sustainable Fashion del London College of Fashion.

Le 5 parole chiave della moda sostenibile

Biodegradabilità

Ovviamente non stiamo parlando di indumenti che ti si sciolgono addosso né di prodotti di qualità più bassa e che durano poco. Stiamo parlando invece di materiali che a fine vita possono essere decomposti, a determinate condizioni ambientali, in molecole più semplici attraverso processi naturali catalizzati da funghi e microrganismi. In linea di principio i prodotti realizzati in fibre naturali (cotone, lino, canapa, lana eccetera) senza aggiunta di poliestere, acrilico e sintetico possono ritornare alla natura, evitando la creazione di tonnellate e tonnellate di rifiuti.

Attenzione però a non farti ingannare dall'etichetta 100% organic o da altre forme di greenwashing. La distinzione tra tessuti naturali e tessuti sintetici non significa automaticamente che i primi abbiano un minore impatto ambientale rispetto ai secondi. Per esempio, le piantagioni di cotone richiedono una grande quantità di acqua e spesso al loro interno si fa ampio utilizzo di pesticidi chimici e di manodopera sovrasfruttata. Quando scegli un capo realizzato con materiale organico guarda allora se l'azienda produttrice segue davvero criteri di natura ecologica e sociale e aderisce, per esempio, al sistema di certificazione GOTS (Global Organic Textile Standard).

Diritti umani

Un indumento può essere costituito da un materiale riciclabile e amico dell'ambiente, ma se per fabbricarlo è stata usata manodopera minorile o sottopagata allora siamo punto e a capo. Per questo quando si parla di sostenibilità non si può prescindere dal rispetto dei diritti umani. Quando un vestito o un paio di scarpe costa troppo poco, fatti qualche domanda. Potrebbe significare che la differenza di costo la sta pagando qualcun altro: magari un bambino sfruttato o un operaio costretto a turni massacranti a pochi dollari l'ora in un Paese del sud-est asiatico. Moda sostenibile significa invece riconoscere al lavoro delle persone il giusto valore.

Slow fashion

Ebbene sì, c'è lo slow food, lo slow tourism, ma c'è anche lo slow fashion. Avrai sentito parlare più spesso di fast fashion, ossia di un modello di produzione e di consumo che punta a rendere i prodotti economicamente accessibili a tutti ma allo stesso tempo poco durevoli attraverso il continuo cambio di tendenze. Si tratta dunque di un modello che per mantenere la linea di produzione sempre attiva e in grado di fornire grandi quantità di articoli si appoggia a manodopera a basso costo, soprattutto nei paesi in via di sviluppo.

Il suo opposto, lo slow fashion per l'appunto, si basa invece sull'idea che i capi debbano essere di migliore qualità e durare più a lungo nel tempo. "In questo senso la parola slow fashion comprende anche una valorizzazione dell'artigianalità, e più in generale di tutto ciò che nell'ambito della moda rispetta il pianeta, il benessere animale e i diritti delle persone", sottolinea Elena Picci.

Tracciabilità

Va bene, tu azienda mi dici di essere sostenibile ma come faccio a essere sicuro che lungo tutti i passaggi della filiera, dalla materia prima alla consegna del prodotto finito, sei stata davvero responsabile dal punto di vista ambientale e sociale? Ecco allora che entra in gioco la tracciabilità, concetto che va di pari passo con quello di trasparenza. Uno dei metodi più sicuri (ma ancora troppo poco adottato) da questo punto di vista è rappresentato dalla blockchain, strumento tecnologico che garantisce un alto livello di tracciabilità e che permetterebbe di arginare anche un problema come la contraffazione.

C'è inoltre tutto il discorso delle certificazioni. Un'autentica galassia fatta di sigle e codici (come la certificazione SA 8000, volta ad accertare alcuni aspetti della gestione aziendale riguardanti la responsabilità sociale d'impresa, oppure ISO 14001 per la valutazione dell'impegno nel minimizzare l'impatto ambientale) che non dovrebbero sfuggire al controllo di un acquirente attento. "Hanno però anche qualche difetto. Innanzitutto costano: rimangono tagliate fuori le piccole realtà che operano sì in maniera etica e sostenibile, ma magari non se le possono permettere. E poi sono troppe, rischiano perfino di creare confusione nei consumatori", aggiunge Elena.

Upcycling

Coniato come termine da pochi anni, l'upcycling è qualcosa di più del riciclo. Significa recuperare gli scarti dell'industria oppure i vestiti destinati alla discarica e ridargli una nuova vita, creando prodotti con un valore maggiore di quello del materiale originale. Un esempio di upcycling è il trashion (che è una fusione tra le parole "trash", ossia i rifiuti, e "fashion"). Di che cosa si tratta? Semplice, grazie alla creatività e senza neanche una profonda trasformazione del materiale in questione, ciò che viene considerato rifiuto diventa moda, "e in alcuni casi si dà vita a delle vere e proprie opere d'arte".

L'upcycling non riguarda solo "i rifiuti della moda", se così possiamo definirli, ma si serve anche di materiali destinati allo smaltimento provenienti da altri settori. "Tanto per fare un esempio, a Milano c'è una start-up, chiamata Wrad, che usa la grafite per colorare i vestiti, e ricicla in particolare gli scarti delle matite. Qui si innesta un altro grande tema che è quello dell'economia circolare", spiega Elena Picci. Il mondo dell'upcycling è estremamente vario, anche in Italia. A conferma che le alternative sostenibili alla moda veloce esistono eccome.