C’è ancora molto da fare, ma la Cop26 di Glasgow non è stata un totale fallimento

È vero, l’accordo finale è stato annacquato all’ultimo e rimane irrisolto il nodo della finanza climatica. “I veri sconfitti sono i Paesi più poveri e quelli che già pagano il prezzo più alto della crisi climatica”, afferma Gianluca Ruggieri, ingegnere ambientale e ricercatore all’Università dell’Insubria. La speranza arriva soprattutto dal’attivismo dei giovani: “A loro dico, non fatevi prendere dallo sconforto”.
Entra nel nuovo canale WhatsApp di Ohga
Federico Turrisi 16 Novembre 2021

"La Cop26 è finita. Ecco un breve riassunto: bla bla bla. Ma il vero lavoro prosegue fuori da queste stanze. E noi non ci arrenderemo mai". Così ha twittato Greta Thunberg la sera dello scorso 13 novembre, ancora prima che si chiudesse ufficialmente a Glasgow il vertice Onu sui cambiamenti climatici.

Dei risultati ottenuti con la Cop26 e degli obiettivi mancati abbiamo già avuto modo di parlare. Nel complesso, si è trattato davvero di un flop? Prima di rispondere a questa domanda, forse conviene fermarsi e riflettere. I motivi per essere delusi ci sono, ma bisogna pur considerare che il processo dei negoziati è molto complesso e mettere d'accordo quasi 200 Paesi del mondo non è una passeggiata. Il giudizio sulla Cop26 di Glasgow non può essere troppo netto. Come ci ha spiegato Gianluca Ruggieri, ingegnere ambientale e ricercatore all'Università dell'Insubria, nonché vicepresidente della cooperativa energetica "ènostra" e curatore del libro "Che cos'è la transizione ecologica".

La prima domanda che sorge spontanea è: ci voleva la Cop26 per prendere coscienza dell'urgenza di affrontare la crisi climatica?

Due settimane fa, durante una lezione per un corso universitario, ho detto in modo provocatorio "so già come andrà a finire la Cop26", mostrando una slide con un bicchiere contenente dell'acqua. Da sempre le Conferenze sul clima sono lette da alcuni in maniera più positiva, da altri in maniera più negativa: c'è chi vede il bicchiere mezzo pieno, e chi vede il bicchiere mezzo vuoto. In questo caso stiamo parlando di un evento che si doveva tenere l'anno scorso (la Cop26 è stata posticipata a causa della pandemia) e in cui si dovevano ridefinire i cosiddetti NDCs (Nationally Determined Contributions, i piani nazionali di azione per il clima) dopo l'Accordo di Parigi.

A Parigi nel 2015 si è stabilito l'obiettivo di contenere il riscaldamento globale sotto i 2 gradi rispetto all'era preindustriale, facendo tutto il possibile per stare sotto 1,5 gradi. Successivamente, nell'ottobre del 2018, l'Ipcc, ossia l'organismo delle Nazioni Unite di supporto scientifico sui cambiamenti climatici, ha pubblicato un rapporto speciale che aveva come scopo quello di verificare quale differenza ci fosse tra due gradi e un grado e mezzo, diciamo così. E veniva fuori che c'è una bella differenza. Quindi serviva eccome ribadire in un ambito politico, come quello della Cop, l'obiettivo di limitare l'aumento della temperatura terrestre a 1,5 gradi.

Molte cose le sappiamo da decenni, è vero. Ma negli ultimi tre anni abbiamo assistito a un'escalation di consapevolezza determinata anche dai movimenti per il clima. Questo ha fatto sì che ci fosse una progressiva accelerazione. E non dimentichiamoci che, durante la presidenza Trump, gli Stati Uniti erano usciti da questo percorso e solo di recente sono rientrati.

All'indomani della chiusura della Cop26, il premier britannico Boris Johnson ha parlato in conferenza stampa di "fine dell'era del carbone": è davvero così?

In realtà, i cambiamenti più importanti sul carbone stanno avvenendo al di fuori dei negoziati. Ci sono diversi Paesi che si sono impegnati ad abbandonare il carbone – gli stessi Stati Uniti, il Canada, il Regno Unito, la Germania (che si è complicata la vita, dovendo uscire anche dal nucleare) – e a non finanziare la costruzione di nuovi centrali all'estero. Dall'altra parte, però, questo non avviene ancora in alcuni Stati che stanno vivendo una crescita economica significativa. Mi riferisco soprattutto all'India, ma anche alla Cina.

È corretto dire che gli "sconfitti" della Cop26 sono i Paesi più poveri?

Assolutamente. Tra le cattive notizie arrivate da Glasgow una è senz'altro quella del mancato accordo sui finanziamenti per i cosiddetti Paesi in via di sviluppo. Per essere più precisi, si parla di due linee di finanziamento diverse: uno è il famoso fondo da 100 miliardi di dollari all'anno, mentre l'altro capitolo riguarda il "loss and damage", ossia i fondi da mobilitare per compensare i danni causati dalla crisi climatica, di cui i maggiori responsabili sono storicamente i Paesi più ricchi.

Guardando alla Cop27, quanto è importante il ruolo della società civile e di movimenti come Fridays for Future?

Bisogna tenere in considerazione una cosa: l'ultima Cop si è tenuta a Glasgow. La prossima sarà a Sharm el-Sheikh, in Egitto, e tra due anni negli Emirati Arabi Uniti. Non sarà così facile scendere in piazza, a prescindere dalla questione pandemia che speriamo possa risolversi nel frattempo. Quello che possono fare gli attivisti è mantenere alta l'attenzione. E, a mio avviso, non devono farsi prendere dallo sconforto. La loro azione è stata fondamentale su più livelli. Se gli Stati Uniti e l'Unione Europea si stanno assumendo maggiori impegni sulla transizione ecologica è anche perché si è rafforzata la sensibilità dell'opinione pubblica sulle tematiche connesse al clima e all'ambiente.

Come ha detto Mario Draghi a Glasgow, i giovani hanno il merito di averle portate in cima all'agenda politica…

Ricordiamoci che, oltre a quelle in piazza, nei giorni della Cop26 all'interno dello Scottish Event Campus c'erano circa 40 mila persone tra delegati, osservatori e altre figure, con possibilità diverse di intervenire nei processi negoziali. Resistere a un evento come la pandemia per un movimento nato in piazza non è affatto cosa da poco. Questa forte pressione dal basso è destinata a farsi sentire ancora.