Dall’empatia alla gestione dello stress: le “life skills” diventano materie inserite nel programma scolastico

Se non indicato espressamente, le informazioni riportate in questa pagina sono da intendersi come non riconosciute da uno studio medico-scientifico.
Dal prossimo anno scolastico, attraverso un progetto pilota di sperimentazione, alcune competenze non cognitive saranno insegnate sui banchi di scuola, con lo scopo di preparare al mondo del lavoro i più giovani e di investire sulla loro crescita personale. A questo riguardo abbiamo chiesto il parere della Dottoressa Federica Gallo, psicologa e psicoterapeuta.
Entra nel nuovo canale WhatsApp di Ohga
Gaia Cortese 1 Febbraio 2022

Non solo più letteratura, matematica, inglese ed educazione civica. A partire dal prossimo anno sui banchi di scuola si terranno anche lezioni interamente dedicate all’insegnamento delle competenze non cognitive: empatia, creatività,  gestione dello stress e problem solving, tutte abilità costantemente richieste una volta approdati nel mondo del lavoro, ma mai neppure menzionate in ambito scolastico.

È di poche settimane fa la notizia che la Camera dei Deputati ha approvato quasi all’unanimità (340 viti a favore, 5 astenuti e nessun voto contrario) la proposta di inserire nel programma didattico le cosiddette life skills, con l’obiettivo di formare le nuove generazioni rendendole più preparate a soddisfare le richieste del mercato del lavoro. Non solo. L’insegnamento delle competenze non cognitive ha un certo peso anche per la crescita personale di ciascun soggetto, aspetto che ci ha portato a incontrare la Dottoressa Federica Gallo, psicologa e psicoterapeuta che opera su Milano e Napoli e che ha risposto alle nostre domande.

Cosa pensa della proposta recentemente approvata dalla Camera dei Deputati relativa all’insegnamento delle cosiddette “life skills” sui banchi di scuola?

Credo che abilità quali empatia, gestione dello stress, problem solving, creatività, resilienza siano da troppo tempo concetti prevalentemente teorici, che si rendono un po’ più “visibili” solo nel momento in cui, una volta adulti, ci troviamo in un contesto di valutazione, ad esempio in
occasione di un nuovo lavoro. Eppure, quelle “competenze” si rendono utili fin da quando siamo bambini, in ogni “sistema” a cui apparteniamo (familiare, amicale, lavorativo) e, quindi, con cui ci troviamo a relazionarci.

D’altra parte, non è un caso che si chiamino “life skills”. Ma, proprio come un muscolo, per crescere, ha bisogno di alimentazione ed allenamento, anche queste “competenze per la vita”, per essere maturare nel tempo, hanno bisogno di nutrimento ed esperienza. Credo che riconoscere un preciso tempo e un preciso spazio a queste abilità all’interno delle scuole permetta, finalmente, di riconoscerne l’importanza, lanciando, già di per sé, un importante messaggio prima di tutto agli adulti, che sono i primi responsabili dello sviluppo di life skills nei più piccoli.

Tra le competenze non cognitive, c’è l’empatia. Come si può insegnare a bambini e ragazzi a essere empatici?

Per poter davvero comprendere cosa prova l’altro, è necessario innanzitutto saper riconoscere le proprie emozioni, distinguere l’una dall’altra. Oggi, per i bambini e per gli adolescenti, abituati a nascondere se stessi dietro ad uno schermo, non è facile: non sanno dare un nome a ciò che sentono. Una tecnica molto efficace è l’utilizzo delle immagini, da mostrare ai bambini affinché attribuiscano un’emozione ad ogni immagine, condividendo poi la propria esperienza in gruppo.

Parlando “sull’immagine” ogni bambino parlerà di sé, e imparerà a conoscere e riconoscere le proprie emozioni. Per insegnare davvero a bambini e ragazzi ad essere empatici, in generale, bisogna allontanarsi dai concetti teorici: per sentire davvero ciò che sente l’altro, devono farne esperienza. Un modo molto efficace è il gioco di ruoli: come dei veri attori, ciascuno ricopre un ruolo, immergendosi così nelle sue emozioni. Poi i ruoli si possono invertire, calandosi nei panni dell’altro. Si tratta di un gioco ma, come direbbe Escher, è “un gioco molto serio”.

Perché è importante insegnare anche una competenza come la resilienza?

Per un sano sviluppo psicofisico non è necessario che i più piccoli evitino di confrontarsi con eventuali problemi e con la frustrazione che ne deriva. Al contrario, affrontare le difficoltà è ciò che davvero permette di crescere, di sviluppare la fiducia in se stessi e di essere, quindi, pronti ad affrontare la vita. La resilienza, di cui si parla tanto ultimamente, è, in origine, la proprietà meccanica che permette ad un materiale di mantenere la propria forma, anche a seguito di un urto.

Un bambino che impara che gli “urti” sono superabili, che non distruggono il suo “castello”, è un bambino che è capace di lanciarsi nella vita e di sentirsene protagonista, piuttosto che rassegnarsi all’idea di doverla subire, passivamente.

Secondo lei, l’inserimento delle competenze non cognitive nel programma scolastico faciliterà l’ingresso degli studenti nel mondo professionale?

Decisamente. Spesso dimentichiamo che dietro ogni professionista, che esercita il proprio ruolo, si nasconde una persona, con le sue fragilità, le sue paure… insomma, con la sua storia. Non appartiene solo agli psicologi la necessità di conoscere se stessi e sviluppare life skills, per poter svolgere al meglio il proprio lavoro: in ogni contesto, che prevede l’incontro tra più persone, quelle abilità sono fondamentali.

C’è qualcos’altro di cui ci sarebbe assolutamente bisogno in questo momento storico per crescere bambini e ragazzi in modo migliore, magari trasmettendo loro maggiore serenità?

La cosa che oggi serve più che mai a bambini e ragazzi, in una società che, con le sue innovazioni tecnologiche, porta sempre più lontano da se stessi, è darsi la possibilità di ascoltarsi e di dare voce a ciò che si ha dentro, perché tutto ciò che soffochiamo, che resta un “non detto”, influenza negativamente, più che mai, il rapporto con noi stessi e con gli altri.