Il destino della foresta amazzonica è appeso a un filo

Sempre più vittima dei disboscatori (soprattutto da quando Bolsonaro è diventato presidente del Brasile) e messa a dura prova dal cambiamento climatico, la foresta pluviale più grande del mondo rischia di imboccare una strada da cui in futuro potrebbe essere molto difficile tornare indietro.
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Federico Turrisi 22 Aprile 2020

In occasione della giornata della Terra non possiamo non ricordare il ruolo fondamentale che svolge la foresta amazzonica per gli equilibri naturali del pianeta. Il nostro "polmone verde" sta soffrendo: la scorsa estate l'Amazzonia ha occupato le prime pagine e le homepage delle testate di tutto il mondo per via della lunga serie di incendi (prevalentemente di origine dolosa) che hanno devastato la regione.

Anche se i riflettori mediatici sono rivolti altrove in questo periodo, non significa che il problema della deforestazione si sia attenuato, anzi. Da un lato la pandemia minaccia le comunità indigene: meno di due settimane fa è morto un ragazzo di 15 anni, appartenente alla tribù dei Yanomami, che aveva contratto il coronavirus. Il giovane viveva nel villaggio di Rehebe, nella zona del fiume Uraricoera, dove sono presenti diversi accampamenti di cacciatori di metalli preziosi. E adesso cresce tra gli indios la preoccupazione che possa aumentare il numero di infezioni da Covid-19.

D'altro canto, i proprietari terrieri, che mirano ad ampliare le terre coltivate o i pascoli per il bestiame, i madereiros (i taglialegna) e i garimpeiros (i cercatori d'oro) illegali approfittano dell'emergenza sanitaria e del disinteresse del governo brasiliano, guidato da Jair Bolsonaro, per agire indisturbati nella loro opera di disboscamento. E non si fanno scrupoli ad assoldare sicari per sbarazzarsi degli indigeni che provano ad opporsi.

Risultato? La deforestazione continua ad aumentare a un ritmo preoccupante. Secondo i rilevamenti satellitari del Deter, il sistema d’allerta di disboscamento dell'Inpe (l'Istituto Nazionale di ricerche spaziali brasiliano), la perdita di foresta pluviale è cresciuta nei primi tre mesi del 2020 del 51% rispetto all'anno scorso. Non si può più andare avanti così. Le conseguenze sarebbero catastrofiche.

Che cosa rende unica al mondo la foresta amazzonica

La foresta amazzonica si estende su una superficie di oltre 6 milioni di chilometri quadrati. Più della metà è in Brasile, e abbraccia anche altri otto Paesi: Bolivia, Perù, Ecuador, Colombia, Venezuela, Guyana, Suriname e Guyana Francese. È la foresta pluviale più vasta del mondo. Si trova nella fascia climatica, quella tropicale, dove la biodiversità vegetale e animale è massima.

"La taiga siberiana, per esempio, è ugualmente importante in termini di carbonio contenuto nel suolo e nella vegetazione, ma il fatto di avere una così grande estensione forestale in una zona tropicale, come nel caso dell'Amazzonia, è una combinazione particolarmente felice di fattori, a livello di biodiversità", spiega Giorgio Vacchiano, ricercatore in gestione e pianificazione forestale all'Università Statale di Milano.

Sono tre i tesori che la foresta amazzonica custodisce: acqua, carbonio e biodiversità. Quest'ultima, in particolare, costituisce un aspetto molto importante, e non solo dal punto di vista botanico e zoologico. "Il fatto di avere molte specie è essenziale per garantire il buon funzionamento di questi ecosistemi, che a loro volta danno all'uomo i sistemi di supporto vitale di cui necessita: la fornitura di acqua, la cattura di carbonio atmosferico, la regolazione del ciclo del suolo".

Verso il punto di non ritorno?

La principale domanda che ci poniamo vedendo la devastazione di cui è vittima l'Amazzonia è questa: rischiamo davvero di perderla per sempre, di renderla (soprattutto la parte brasiliana) un'enorme area destinata alle monocolture di soia e ai pascoli per il bestiame, con un ecosistema più simile a quello di una brulla savana? Già solo l'idea che si possa correre un rischio del genere è sconvolgente.

Eppure gli esperti si stanno interrogando sul possibile "punto di non ritorno" della foresta amazzonica. Scientificamente è difficile calcolare con precisione una soglia, una data oltre la quale il processo precipita, ma è più che legittimo ragionarci. Perché il processo stesso è già in corso e sotto gli occhi di tutti. "Il problema è l'interazione di due meccanismi che si rafforzano l'uno con l'altro in un pericoloso circolo vizioso: la siccità e la deforestazione. Aumenta uno, peggiora l'altro", prosegue Vacchiano.

Da una parte gli incendi – che, come abbiamo visto la scorsa estate, sono il principale mezzo per deforestare – rilasciano nell'atmosfera enormi quantità di carbonio contenute negli alberi, contribuendo al riscaldamento globale. Da un recente studio pubblicato su Environmental Research Letters emerge che la siccità nella regione amazzonica è aumentata del 4% come risultato dell'accelerazione della deforestazione negli ultimi anni. I ricercatori hanno notato che l'area più colpita dalla siccità è proprio quella più martoriata dalla deforestazione, ossia quella sud-orientale (guarda caso, in Brasile).

"Il problema è l'interazione tra siccità e deforestazione, che si rafforzano l'uno con l'altro in un pericoloso circolo vizioso"

Dal 2005 a oggi l'Amazzonia è stata colpita da tre gravi periodi di siccità e la temperatura media è cresciuta di oltre un grado rispetto al secolo scorso, stando a quanto evidenzia un altro studio del 2016. Succede allora che tra le conseguenze del cambiamento climatico, causato dalla maggiore concentrazione di gas serra nell'atmosfera, ci sono anche l'indebolimento degli alberi e la diminuzione della capacità da parte della foresta di assorbire CO2. Inoltre, con un clima più secco le fiamme appiccate dai disboscatori si propagano più facilmente. Meno alberi significa più carbonio nell'atmosfera, e così la spirale negativa continua ad autoalimentarsi.

"Che questa interazione tra siccità e deforestazione esista è un dato assodato. Allo stesso modo di altre grandi interazioni, come per esempio quella tra la fusione dei ghiacci e la diminuzione dell'albedo (la capacità di riflettere la radiazione solare, ndr) per quanto riguarda l'aumento delle temperature ai poli". Tanto che anche nel caso delle calotte polari si parla di punto di non ritorno.

La parola d'ordine è riforestare (ma con criterio)

Per evitare la catastrofe il rimedio consigliato è la riforestazione di ampie zone dell'Amazzonia. "Meglio riforestare qui che in altre parti del mondo, dove la riforestazione potrebbe addirittura avere risvolti negativi. E mi riferisco soprattutto all'albedo. Mentre nelle regioni fredde la presenza di una foresta di conifere rende il territorio più scuro, quindi più propenso ad assorbire i raggi solari, nelle regioni tropicali la presenza di una foresta di latifoglie rende il territorio più chiaro e quindi più propenso a riflettere i raggi solari e a far tornare indietro il calore che arriva".

C'è poi un altro elemento da tenere in considerazione. Non tutta la superficie dell'Amazzonia è costituita da giungla tropicale ricca di liane, come ci immaginiamo dai film. "Tutta la parte periferica, soprattutto quella a sud-est, è un ecosistema molto meno umido, già di suo al confine tra la foresta e la savana, con alberi un po' più sparsi. È il cosiddetto Cerrado. Qui la deforestazione è più intensa, perché ci sono i terreni più adatti sia per coltivare la soia sia per i pascoli del bestiame; e qui sarebbe più facile ripiantare degli alberi", aggiunge Vacchiano.

Una volta individuata l'area, il punto fondamentale diventa come piantare. Come ha denunciato in passato Greenpeace, riforestare attraverso la creazione di piantagioni commerciali non è la soluzione. "Anche la palma da olio è una piantagione, e nessuno direbbe che in Indonesia l'ecosistema è stato ripristinato solo perché sono stati piantati degli alberi. Anzi, sarebbe corretto dire che l'ecosistema precedente è stato distrutto. È necessario quindi piantare con l'ottica di ripristinare un ecosistema che sia in grado di autosostenersi, nella maniera più naturale possibile. Non serve piantare per scopi commerciali creando sistemi a bassissima biodiversità. Questo sarebbe solo controproducente".