
Cani che da neri si rivestono di verde, promesse di carbon neutrality sullo sfondo di foreste illuminate dai primi raggi del sole, greencarpet che sostituiscono i vecchi redcarpet. Quello che accomuna il Festival di Sanremo ai mondiali in Qatar e persino alla Cop27 di Sharm el-Sheikh sono le accuse di greenwashing. L'ambientalismo di facciata è una strategia di marketing attraverso cui multinazionali e grandi aziende cercano di costruirsi un'immagine positiva sotto il profilo dell'impatto ambientale, oltre che di rispondere alla crescente domanda di beni e servizi che siano sostenibili e rispettosi del Pianeta. Stiamo parlando di un mercato che, solo in Italia, vale 14,5 miliardi di euro. Ed è in continua crescita. Secondo il Sustainability Report 2023 di NielsenIQ, circa l'86% delle famiglie si orienta su "beni di largo consumo definiti come ‘sostenibili’ sulla base delle informazioni presenti sui packaging" e, andrebbe aggiunto, negli spot pubblicitari.
Il greenwashing è anche un lenzuolo bianco con cui vengono ricoperti tutti i danni ambientali provocati proprio da queste aziende. Un "lavaggio" che paghi di tasca tua molto più spesso di quanto tu possa immaginare. Un esempio? Le bollette che, come ben sai, hanno subito un rincaro impressionante nell'arco di un anno. Ma andiamo con ordine.
Tutte le aziende oggi hanno almeno una sezione sul sito dedicata ai loro impegni in fatto di sostenibilità. Promesse che gli autori del Corporate Climate Responsibility Monitor hanno definito "esagerate, fuorvianti e false". Il report, giunto alla sua seconda edizione, è frutto della collaborazione tra il Carbon Market Watch e il NewClimate Institute e ha misurato gli effettivi progressi in campo green di 24 grandi aziende a livello globale, selezionate tra 8 diversi settori industriali e di consumo. Complessivamente, le loro entrate hanno raggiunto i 3mila miliardi di dollari nel solo 2021. La reale portata delle loro net zero strategies, invece, si ferma al 36% di riduzione delle emissioni inquinanti. Troppo poco per avere un impatto significativo sulla crisi climatica e sul riscaldamento globale.
Due sono i problemi principali: il contenuto effettivo dei programmi e le scadenze che le società si sono autoassegnate.
Nella maggior parte dei casi, gli impegni sono stati presi sfruttando la logica della compensazione, attraverso la silvicoltura o progetti di utilizzo del suolo in senso virtuoso. In altre parole, le varie iniziative di piantumazione di nuovi alberi o di realizzazione di parchi urbani. Ma, denunciano gli autori, "considerati tutti insieme questi piani superano di gran lunga il potenziale tecnico delle risorse naturali del mondo e si basano su una comprensione fondamentalmente errata di come funzionano i pozzi di carbonio naturali".
I risultati, inoltre, non sono ambiziosi dal momento che si prevede di raggiungerli solo nel lungo termine, senza peraltro spiegare o delineare una road map che mostri il come. La scadenza per tutti quanti dovrebbe essere il 2030, ma sulla base dei progressi realmente compiuti, il report evidenzia l'impossibilità di centrare i target degli Accordi di Parigi entro quella data. I termini poi "sono su base volontaria e indicati dalle stesse aziende, che lanciano così il messaggio di non aver bisogno di essere regolate o controllate affinché li raggiungano", ha commentato Thomas Day, analista del think tank indipendente NewClimate Institute.
Solo 5 gruppi, tra tutti quelli esaminati, sembrano portare avanti un reale impegno per la decarbonizzazione, gettando le premesse per presentarsi all'appuntamento con il 90% di emissioni inquinanti in meno. Altre 15 aziende invece non raggiungono la sufficienza e ricadono nelle categorie "efficacia bassa" o "molto bassa". Si parla di brand come JBS Foods (multinazionale brasiliana della carne), Carrefour, Amazon, DHL, Nestlè SA o PepsiCo Inc. Si posizionano meglio i big del settore tecnologico come Apple Inc. o Microsoft Corp, ma l'unico a convincere davvero, e a classificarsi nella fascia "efficacia ragionevole" è il gruppo danese Maersk.
Va detto che il campionamento non ha incluso nomi illustri come quello di CocaCola Company o di McDonald's Corporation. Ma lo scenario che dipinge può essere probabilmente esteso alle altre aziende che appartengono al medesimo settore: moltre promesse, poca (o pochissima) sostanza. Intanto però tu hai acquistato i loro beni, in certi casi accettando anche di spendere qualcosa in più, nella convinzione di ridurre l'impatto ambientale.
Più lampante rispetto a spot pubblicitari e packaging rivestiti di green è la questione degli extra-profitti che le società energetiche hanno realizzato in conseguenza della guerra in Ucraina e della crisi energetica. Per riassumere, gli extra-profitti sono tutti quei guadagni maggiori ottenuti da chi ha importato gas e petrolio dalla Russia, o da altri produttori, e li ha poi rivenduti su un mercato dove l'offerta si era ridotta e dimorava la paura di non averne abbastanza.
Entrando ancora più nel concreto, il rialzo delle bollette di luce e gas, aumentate fino al 64,8% rispetto al 2021, non è stato l'effetto di un costo più elevato della materia prima, ma di dinamiche di mercato. La maggior parte del gas distribuito in Europa, infatti, viene acquistato dai Paesi produttori a prezzi concordati mesi o addirittura anni prima. Le aziende dunque hanno versato più o meno le stesse cifre degli anni precedenti, ma hanno potuto rivendere il combustibile a prezzi ben più alti grazie agli eventi contingenti. E quello scarto lo hai pagato tu.
"Non esiste motivazione tecnica di questi rialzi – aveva commentato l'allora ministro della Transizione Ecologica, Roberto Cingolani. – La crescita non è correlata alla realtà dei fatti, è una spirale speculativa su cui guadagnano in pochi, una colossale truffa a spese delle imprese e dei cittadini". Per quanto riguarda nello specifico le aziende italiane, la Procura di Roma aveva addrittura aperto un'indagine.
Ma a quanto ammontano esattamente questi extra-profitti? Lo scorso dicembre aveva fatto i conti ReCommon, attraverso un'analisi realizzata in collaborazione con Merian Research. Lo studio aveva preso in esame le sei principali aziende energetiche europee (Bp, Eni, Equinor, Repsol, Shell e TotalEnergies) e aveva calcolato che, in totale, questi giganti dell'energia avevano portato a casa 74,55 miliardi di dollari extra. Vale a dire, oltre ai guadagni che producono di norma. Al netto di investimenti e copertura dei costi, restavano 46 miliardi di contante generato. In testa la novergese Equinor, con 28 miliardi di dollari.
Considerate le promesse di una rapida transizione energetica e le immagini di pannelli solari e pale eoliche che sui vari siti ufficiali si sprecano, ci si aspetterebbe che buona parte di questi soldi siano andati a supportare i piani di sostenibilità. Invece, in media solo il 19% del totale ha effettivamente imboccato quella strada, con Eni che in questo panorama raggiunge un 25% mentre Equinor non va oltre il 10%.
"Gli extra-profitti non hanno spinto ancora nessuna compagnia petrolifera ad accelerare sulla transizione energetica – ha infatti commentato Mauro Meggiolaro di Merian Research, autore del rapporto. – Appare difficile immaginare che di questo passo si riesca a raggiungere l’azzeramento delle emissioni nette di CO2 entro il 2050".
In numeri assoluti, nel primo semestre del 2022 solo 9 miliardi di dollari di extra-profitti sono stati investiti in tecnologie green, contro i 31 miliardi distribuiti agli azionisti. Un'altra buona fetta di guadagni, poi, è stata impiegata per il cosiddetto share buyback, ovvero il riacquisto di azioni proprie. Piani di investimento che per BP e Shell si sono aggirati attorno ai 9 miliardi, mentre Eni a luglio 2022 era ferma a 2,4 miliardi.
La vicenda che ha portato Shell di fronte all'Alta Corte di Londra in questo senso è esemplare. Con 40 miliardi di dollari di profitti in un solo anno, la multinazionale anglo-olandese ha raggiunto un record, segnando addirittura un raddoppio rispetto alle cifre del 2021. Stando a quanto lei stessa ha comunicato, nel 2022 il 12% degli investimenti sarebbe andato a sostegno di una divisione chiamata Renewables and Energy Solutions. Gli attivisti di Global Witness contestano questi dati e ribattono che solo l'1,5% dei fondi sarebbe effettivamente destinato alle rinnovabili, mentre il restante finanzierebbe il gas che, per quanto inserito all'interno della tassonomia green europea, rimane una fonte fossile. Per questo motivo, l'organizzazione ha espressamente richiesto l'intervento della US Securities and Exchange Commission (SEC).
Ma davanti ai giudici britannici, Shell ci è arrivata per un altro motivo. E non è nemmeno la prima volta. A dicembre dello scorso anno un altro tribunale del Regno Unito aveva obbligato la compagnia a versare 15 milioni di dollari come risarcimento per i danni provocati dalle perdite dei suoi oleodotti nell'area del Delta del Niger tra il 2004 e il 2007. La multinazionale è presente in Nigeria da oltre 80 anni, anche grazie alla succursale Shell Petroleum Development Company of Nigeria. Possiede circa 50 pozzi petroliferi e 6mila chilometri tra gasdotti e oleodotti. Un giro d'affari da miliardi di dollari.
Oggi quell'area, alla foce del fiume più importante di tutta l'Africa Occidentale, è impregnata di petrolio. I pozzi d'acqua potabile e i terreni mostrano una concentrazione di sostanze cancerogene che supera di 900 volte i livelli di sicurezza stabiliti dall'Organizzazione mondiale della sanità. Secondo l'Università svizzera di San Gallo, i neonati nigeriani che nascono nei pressi di un'area con fuoriuscita di petrolio hanno il doppio del rischio di mortalità già nel loro primo mese di vita rispetto ai coetanei che vivono in altre zone del Paese.
A essere più in difficoltà sono le comunità di pescatori e agricoltori alle quali l'acqua del fiume dà da vivere. Ogale e Bille, rispettivamente 40mila e 13mila abitanti, sono tra queste. Qui, i pesci sono morti, l'acqua appare oleosa e quando esce dal letto del fiume, inonda le terre circostanti, contaminandole e distruggendo le colture. Persino dai rubinetti esce acqua marroncina che puzza di petrolio. Rimasta senza cibo e senza lavoro, la popolazione si sta ribellando e ha scelto (di nuovo) le vie legali.
Quasi 14mila di loro si sono uniti e hanno fatto causa a Shell, chiedendole di ripulire lo sporco che sta lasciando dietro di sè. La linea difensiva, però, resta quella già utilizzata durante la precedente vicenda giudiziaria: le fuoriuscite sarebbero una conseguenza dei sabotaggi operati da gang e piccoli criminali locali e dunque non diretta responsabilità della compagnia. Le azioni di sabotaggio, però, hanno rappresentato negli anni una forma di rivolta nei confronti di una multinazionale straniera che stava inquinando e impoverendo quelle terre.
Secondo Daniel Leader, socio dello studio legale Leigh Day che si occupa di rappresentare i cittadini nigeriani: "Questo caso solleva un'importante questione sulle responsabilità delle compagnie di petrolio e gas. Sembra che Shell voglia lasciare il Delta del Niger senza dover rispondere di nessun obbligo legale nei confronti della devastazione ambientale causato dai malfunzionamenti delle infrastrutture durante questi decenni".
Riassumendo quindi dietro i greencarpet patinati si nascondono intere aree del Pianeta gravemente inquinate e rese ormai inabitabili, pochissimi investimenti in concrete strategie di riduzione delle emissioni e politiche green che restano molto lontane dai target degli Accordi di Parigi.
Tu, tutto questo, lo stai pagando. Lo paghi quando acquisti un prodotto pubblicizzato come "sostenibile", mentre lo sforzo effettivo in termini di impatto ambientale si riduce a un packaging più eco-friendly e all'eliminazione della cannuccia di plastica. Lo paghi quando aumentano i costi in bolletta, generando profitti altissimi a beneficio di poche multinazionali che poi riservano solo una piccola percentuale agli impegni di transizione energetica che loro stesse hanno promesso. Lo paghi ogni volta che ti chiedono di fare uno sforzo in più per il Pianeta, mentre interi fiumi e terreni contaminati non vengono bonificati. E lo paghi perché il Pianeta che stanno distruggendo è anche il tuo.
Cosa puoi fare tu? Il primo passo è comprare e consumare meno. Come ha dimostrato una ricerca dell'Università dell'Arizona, più che un cambio di rotta stiamo attuando un riadattamento green del modello consumistico al quale siamo abituati. Perciò manteniamo la stessa quantità di acquisti, ma cerchiamo la versione più sostenibile di ogni prodotto o servizio. E continuiamo a sprecare energia come se ne potessimo davvero usare all'infinito. Intercettato questo nuovo trend di mercato, le aziende si sono allineate modificando più le strategie di marketing che quelle ambientali. Ma secondo la professoressa Sabrina Helm, prima autrice dello studio, “il punto cruciale è ridurre i consumi, non comprare un altro tipo di prodotti”.