Lecanemab è il nuovo farmaco contro l’Alzheimer, il prof. Rossini: “Si è aperta una nuova promettente porta terapeutica”

Lecanemab è un anticorpo monoclonale a cui l’FDA statunitense ha appena dato la propria autorizzazione per il trattamento della malattia di Alzheimer. Modificando l’evoluzione naturale della malattia, si è dimostrato in grado di rallentarne il decorso.
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Kevin Ben Alì Zinati 17 Gennaio 2023
* ultima modifica il 18/01/2023
Intervista al Prof. Paolo Maria Rossini Direttore del Dipartimento Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’IRCCS San Raffaele di Roma

C’è un nuovo farmaco contro l’Alzheimer. So che è una frase già letta e sentita e che la malattia, purtroppo, è ancora la forma più comune e diffusa di demenza. Eppure questa volta è diverso. O meglio: ci sono buonissime possibilità che presto arrivi a nostra disposizione un nuovo alleato contro questa invalidante patologia neurodegenerativa.

Sto parlando di Lecanemab, un anticorpo monoclonale a cui l’FDA statunitense ha appena dato la propria autorizzazione per il trattamento della malattia di Alzheimer.

La luce verde è arrivata in seguito a una procedura di approvazione accelerata che solitamente è riservata a farmaci per condizioni gravi in presenza di un’esigenza medica insoddisfatta e la cui efficacia, dimostrata su obiettivi surrogati, è ragionevolmente estendibile anche all’obiettivo primario.

I risultati di uno studio di fase III che ha coinvolto più di 856 pazienti hanno dimostrato che il farmaco sarebbe in grado di rallentare, purtroppo non di fermare, la progressione della malattia. Per ora il farmaco può essere utilizzato solo nei trial clinici che coinvolgano persone con forme precocissime di Alzheimer e in cui si è dimostrata la presenza della beta amiloide, elemento distintivo della malattia e obiettivo del farmaco.

Lecanemab è il secondo di una nuova categoria di farmaci approvati per la malattia dopo aducanumab e secondo il professor Paolo Maria Rossini, Direttore del Dipartimento Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’IRCCS San Raffaele di Roma, rispetto a tre anni fa insieme “rappresentano due armi in più all’interno di un armamentario desolante.

Oggi infatti non abbiamo una vera e propria cura per una malattia che colpisce più di 6,5 milioni di americani (in Italia si contano oltre 500mila pazienti) e che è capace di distruggere in modo irreversibile le cellule del cervello compromettendo la memoria, le capacità di pensiero e di linguaggio.

Professor Rossini, qual è l’azione di lecanemab contro l’Alzheimer?

È un anticorpo monoclonale quindi agisce come una sorta di un missile intelligente con un obiettivo specifico da attaccare. In questo caso nel mirino ci sono sono le forme pre-placca di beta amiloide, quelle che ancora non si sono aggregate in vere e proprie placche. Questa è una distinzione importante perché l’atro farmaco “cugino” recentemente approvato dalla FDA, aducanumab, agiva in modo più generalizzato soprattutto sulle forme di beta amiloide già depositata.

Che differenze ci sono tra i due farmaci?

L’efficacia di lecanemab dopo 18 mesi di trattamenti è stata circa del 27%. Significa che in chi è sotto trattamento, la malattia rallenta di un terzo la propria progressione rispetto a chi prende placebo, con una percentuale di effetti collaterali intorno al 9%: mi riferisco a micro emorragie ed edeme nel cervello. Un rapporto più che eccellente. Aducanumab, invece, aveva un’efficacia decisamente più bassa e una frequenza di effetti collaterali intorno al 30-33%.

Il professor Paolo Maria Rossini è Direttore del Dipartimento Neuroscienze e Neuroriabilitazione dell’IRCCS San Raffaele di Roma

Come dovrebbe esser utilizzato?

Il trattamento nei trial clinici finora messi in piedi prevede due flebo al mese per una durata che nessuno ancora conosce bene perché le sperimentazioni sono arrivate a 18 mesi di terapia: è verosimile che questa tempistica possa essere prolungata. Ogni 2-3 mesi servirebbe poi una risonanza magnetica per controllare l’eventuale presenza di micro-emorragie ed edemi.

Nell’universo dei trattamenti che già abbiamo e quelli su cui si sta lavorando, cosa rappresenta lecanemab? 

Insieme ad aducanumab sono i primi due farmaci che agiscono modificando l’evoluzione naturale della malattia. Fino ad oggi avevamo solamente farmaci sintomatici, capaci cioè di ridurre i sintomi della malattia, dall’agitazione al disorientamento, senza però interferire con la malattia sottostante. Questi invece sono i primi che modificano la curva di peggioramento naturale della malattia. Su una persona di 70 anni con una malattia progressiva che toglie l’autonomia come l’Alzheimer, lecanemab potrebbe ridurre il costo personale personale e sociale della sua gestione e garantire una buona qualità di vita per un periodo di tempo più lungo.

Proviamo a dare uno sguardo a 360°: cosa c’è oggi all’orizzonte nel trattamento della malattia di Alzheimer?

Fino ad ora la ricerca si è concentrata maggiormente sulla beta amiloide, e questo approccio sta cominciando a dare i primi risultati. Sappiamo però che l’Alzheimer è una malattia multifattoriale e nella quale intervengono altri elementi, come la proteina tau e in cui insorgono anche un quadro cronico di ipoglicemia, di ipoperfusione e di problemi di ossidanti che agiscono con processi pro-infiammatori. Ci sono tanti fattori coinvolti nella malattia e per ora ne stiamo contrastando solo uno. Bisognerà quindi aspettare alcuni trial attualmente in corso e dedicati allo studio di molecole dirette su altri fattori. Alla lunga credo che arriveremo a ragionare come fatto con Aids, quando furono sviluppati i farmaci trivalenti in cui ognuna delle tre sostanze agiva contemporaneamente su un fattore diverso.

Ma arriveremo mai a una cura definitiva?

Mi occupo di Alzheimer da quasi 30 anni e troppe volte ho detto frasi di speranza purtroppo rimaste deluse. Bisogna essere prudenti perché ogni parola impatta sulle famiglie dei pazienti in modo devastante. Dire che tra cinque anni avremo trovato una cura non sarebbe corretto. La mia esperienza però mi dice che una volta che si apre una nuova porta terapeutica, ogni anno poi arriva sempre qualcosa di nuovo: speriamo.

Se un giorno questo farmaco venisse autorizzato a livello globale e il suo utilizzo esteso a un pubblico molto più vasto, come potremmo identificare i pazienti più suscettibili alla sua efficacia?

La popolazione di riferimento per il lecanemab, quei pazienti cioè con una forma lieve di Alzheimer, è costituita da oltre 735mila persone. In questa platea sappiamo che il 50% rischia la demenza e l’altra metà invece non svilupperà la malattia. Dato a queste persone, il farmaco sarebbe dunque “sprecato” e anche rischioso visti gli effetti collaterali che porta con sé. Per decidere chi ne ha bisogno con urgenza e chi no serve uno strumento adeguato che nel mondo non esiste ancora ma che in Italia avremo entro la fine del 2023. Nel 2018, infatti, abbiamo lanciato un progetto nazionale chiamato “Interceptor”, di cui sono coordinatore nazionale, dedicato allo studio di 5 biomarcatori di malattia su 500 soggetti reclutarti e seguiti per i 3 anni previsti dal progetto. Grazie ai risultati del progetto potremo dire qual è l’insieme di biomacatori (o il singolo biomarcatore) più accurato per stabilire se un soggetto ha un rischio di Alzheimer del 95%, del 50% o 0 e capire quindi a chi destinare il farmaco.

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