Serve creare un’economia circolare degli abiti: anche il riciclo dei materiali della moda fast fashion non è sostenibile

Sapevi che l’industria del fast fashion consuma di più di tutto il traffico aereo e marittimo? I dati che arrivano dall’Unione Europea e dall’Agenzia spagnola di riciclaggio tessile mostrano come non basti riciclare le materie prime dei capi che vengono scartati. Vediamo insieme perché.
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Francesco Castagna 13 Giugno 2022

Nel corso degli anni si è sentito molto parlare dell'impatto dell'industria della moda a portata di tutti, sia a livello di sostenibilità etica che ambientale. Più volte sono state denunciate le modalità di smaltimento dei capi e degli accessori di questa filiera, oggetti che finivano e finiscono ancora in discariche o addirittura in luoghi naturali, come i deserti.

Sebbene l'Unione Europea abbia già previsto un piano contro gli sprechi e l'inquinamento ambientale legati alla produzione dei vestiti, obbligandoli a realizzare i capi con materiali riciclabili e a dichiarare l'invenduto che finisce in discarica ogni anno, tutto ciò non basta ancora a fermare i giganti della moda.

Purtroppo per chi avrebbe intenzione di continuare ad accrescere i suoi affari, e per fortuna invece per l'ambiente, la filosofia del riciclo vale soltanto se questo è pensato in ottica di economia circolare.

Il caso della Spagna

Secondo il barometro dell'Associazione Nazionale dell'industria tessile spagnola, uno degli Stati in cui il fast fashion va per la maggiore, la Spagna ha registrato una ripresa del 19% del fatturato rispetto al 2020 nei primi cinque mesi del 2022. E fin qui sembrerebbe tutto bene per l'economia spagnola, peccato che la ripresa del mercato tessile abbia portato con sé un elevato impatto ambientale.

Alla base di quello che succede in Spagna c'è il fatto che, secondo ASIRTEX, l'Agenzia spagnola di riciclaggio tessile, il Paese è il primo esportatore di moda fast fashion anche perché non ha gli impianti per smaltire tutti i vestiti che produce. Nonostante ci sia stata di mezzo un'emergenza sanitaria a causa del Covid19, ASIRTEX segnala che "alla fine del 2020 più di 900.000 tonnellate di vestiti finiscono in discarica ogni anno".

La sovrapproduzione di abiti

Ma quali sono i rischi ambientali legati alla sovrapproduzione di abiti che a volte nemmeno finiscono in mano al consumatore? Sicuramente l'acqua e il suo consumo. Questo perché per produrre vestiti nel 2015, secondo un rapporto diffuso dall'Unione Europea, l'industria della moda ha utilizzato 79 miliardi di metri cubi d'acqua. Per una sola maglietta vengono impiegati 2700 litri d'acqua, che è il corrispondente del fabbisogno d'acqua di una persona per due anni e mezzo.

Nello stesso rapporto vengono segnalati dati preoccupanti: il 20% dell'inquinamento globale è dovuto al settore tessile, che a causa  dei processi di tintura e finitura porta i capi a rilasciare ogni anno 0,5 milioni di tonnellate di microfibre nei mari e il 35% di microplastiche nell'ambiente.

E per esempio, sapevi che l'industria tessile è responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio nell'aria? Più di tutte l'emissioni dovute al totale dei voli e al trasporto marittimo.

La soluzione quindi non può essere, secondo la responsabile della biodiversità e dei consumi di Greenpeace, Celia Ojeda, il riciclo delle materie prime dalle discariche, ma bisogna rivoluzionare l'industria del fast fashion in un'ottica di un'economia circolare, dove i clienti riportano i capi che non vogliono più direttamente alle aziende che li hanno prodotti.