Unica, anche con l’Alzheimer. La storia di Giuditta

Oggi, in occasione della Giornata mondiale dell’Alzheimer, ti raccontiamo la storia di Giuditta. Prima professoressa, sindaco, madre, moglie, figlia, sorella. Poi malata di Alzheimer. L’ordine scelto per descrivere il nostro interlocutore è fondamentale perché la diagnosi di Alzheimer o demenza non deve “prendere tutto lo spazio”: anche se il malato non ricorda più la sua storia, questa continua a determinarlo.
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Beatrice Barra 21 Settembre 2023
* ultima modifica il 21/09/2023

Milano, zona Nolo. Carica della mia attrezzatura mi infilo in una traversa adiacente a una piazza piena di ragazzi che bevono un drink dopo il lavoro e bambini in monopattino che tornano a casa  insieme ai genitori. Continuo a camminare fino a quando vedo un viso sorridente che mi saluta. É Maria Paola, figlia di Giuditta, una signora malata di Alzheimer che ha accettato di raccontarci la storia della madre – e quindi anche la sua storia – alle prese con una malattia che cambia le lenti attraverso cui le persone guardano il mondo, e il modo in cui i familiari lo vivono.

Arrivata davanti alla porta ad accogliermi c'è proprio Giuditta, con i suoi occhi grandi, i capelli grigio perla sistemati in modo impeccabile e il suo sorriso buono. Mi guarda in modo affettuoso – sembra quasi che mi conosca già – e mi dà un bacio sulle mani, proprio come fanno molte nonne con i nipoti. Inizia a farfugliare alcune parole che non capisco. Sorrido e annuisco. La mattina dello stesso giorno avevo parlato con Cristina Brioschi, psicologa della Federazione Alzheimer Italia, che mi aveva spiegato quanto sia importante assecondare le persone con Alzheimer anche quando dicono o fanno qualcosa che non riusciamo a interpretare immediatamente, farle sentire al sicuro e tentare di comprendere  "sincronizzandoci sui loro canali di comunicazione"  per capire cosa ci vogliono dire, una volta che viene meno la capacità verbale.

Giuditta, in quel momento, mi stava dicendo: "Benvenuta a casa mia, accomodati pure". É stato chiarissimo fin dal primo momento, anche se le parole messe in fila dicevano altro. Così entro, appoggio le cose e incontro il marito di Giuditta: su di lui si notano molto di più gli acciacchi dell'età, ma una delle prime cose che mi fa notare sono queste alte librerie bianche piene di libri. "É la mia dipendenza, come una droga", mi spiega. E continua sorridendo: "Se io avessi il fisico di Giuditta e lei la mia testa (senza alzheimer, ndr), sarebbe tutto perfetto".

Giuditta e Giampaolo, Agosto 2023

La casa è molto curata, c'è una grande attenzione ai dettagli. La prima impressione che ho è che dentro quelle mura ci sia passata – e continui a passarci – moltissima cultura, arte, musica. Maria Paola si siede insieme a Giuditta sul divano di fronte al pianoforte, il papà sulla  sua sedia e io davanti a loro. Iniziamo a parlare e io mi immergo nella storia di Giuditta tra passato e presente, guidata dalle parole di sua figlia.

"La chiave è focalizzarsi su ciò che rimane"

Mentre parliamo Giuditta nota una macchia sul pavimento. Fa segno a Maria Paola e tenta di pulirla con il piede. Era una donna che si prendeva molta cura della casa prima della diagnosi di Alzheimer, un tratto che le è rimasto. Come spiega la figlia: "Mia mamma è sempre la stessa, solo che non ha più la memoria per fare le cose come le faceva prima".

Giuditta è andata via dal suo Paese di origine in Calabria quando aveva solo 20 anni per andare a studiare a Firenze. Qui ha fatto moltissimi lavori diversi per mandare i soldi a casa e aiutare la sua famiglia. Dopo qualche anno a Firenze ha incontrato "per caso" Giampaolo e da allora sono stati sempre insieme. É diventata professoressa, prima alle scuole medie, poi all'università della terza età. E poi è diventata sindaco di San Giuliano Milanese. É stata una "mamma presente, ma severa". Una "brava moglie". Una donna audace, intraprendente e volitiva. Oggi, mi spiegano sorridendo Giampaolo e Maria Paola, è molto più "tenera", ma continua a "voler comandare".

Giuditta da giovane

Spesso per descrivere questo tipo di malattie si usano parole come "sta svanendo", oppure "non è più la stessa persona". Questi termini sono sbagliati perché lasciano intendere che l'Alzheimer prenda tutto lo spazio, senza lasciare niente della personalità di chi lo attraversa. Invece non è così, "alcune autonomie rimangono anche quando i sintomi sono gravi – spiega Cristina Brioschi – e la chiave è focalizzarsi su ciò che rimane, sulla persona con la sua storia e la sua dignità".

Guidata dalle parole di Maria Paola, mi rendo conto di notare in modo palese molti dei tratti caratteriali di Giuditta che lei descrive parlando del passato.

É precisa, come dimostra l'attenzione alla piccola macchia sul pavimento.

É socievole: mi manda baci con due mani e mi sorride durante tutta l'intervista.

É curiosa. Appena vede l'attrezzatura che ho portato con me per le riprese corre a guardare ogni singolo dettaglio, e non distoglie i suoi occhi attenti nemmeno un momento finché non finisco.

Ha voglia di parlare. Come mi racconta Giampaolo, marito di Giuditta, le è rimasta ancora la voglia di fare i discorsi a cui era abituata come sindaco e come professoressa, solo che adesso li fa a lui, mettendo in fila "parole nuove, anche complicate".

I primi sintomi e l'arrivo della diagnosi

La prima ad accorgersi che qualcosa non andava è stata proprio Giuditta. Una volta, dopo aver letto un articolo com'era suo solito fare, "ha detto che non ricordava più il contenuto". Nel suo caso la malattia è progredita lentamente, "probabilmente perché aveva tante risorse cognitive", spiega Maria Paola.

Talvolta, però, notare le dimenticanze scatenava in lei reazioni anche violente: "Un giorno non ricordava di aver avviato la lavatrice e chiedeva a tutti chi l'avesse fatta partire" e quando le risposte non arrivavano la sua reazione è stata di rabbia, aggressività. In casi come questo, spiega la dottoressa Brioschi, "non si deve seguire il nervosismo della persona, ma assecondarla e tranquillizzarla", perché quello è il modo migliore che trova in quel momento per esprimere un malessere o un'esigenza, "bisogna guardare il mondo attraverso le sue lenti, anche se non sempre è facile". Queste consapevolezze, però, si assumono solo con il tempo e grazie a un percorso di accettazione che va di pari passo con la comparsa dei sintomi.

Dopo questi primi episodi e dopo diversi visite è arrivata una diagnosi incerta: "probabile Alzheimer". Questo perché, spesso, non è facile riconoscere la malattia e comprendere quale – e quanto veloce – sarà la comparsa dei sintomi e, di conseguenza, il decadimento cognitivo. Dall'ultimo controllo medico di Giuditta è emerso questo: situazione fisica ottima, decadimento cognitivo avanzato. Riconosce il legame affettivo con i figli e con il marito, ricerca attenzioni e certezza "di essere voluta bene, accettata", ma non riesce a dare un nome alle persone o alle cose.

Stammi vicino, ma lasciami fare

L'Alzheimer è una malattia difficile da accettare. Per il malato, perché perde "la capacità di svolgere azioni quotidiane che ha sempre svolto". Per i familiari "perché devono riscrivere la prospettiva con cui guardano quella persona" e perché devono adottare una grande flessibilità per adattarsi ai sintomi che sono sempre nuovi.

Qualche giorno prima della nostra chiacchierata, per esempio, Giuditta ha trasferito il gelato da una coppetta a un tovagliolo. Probabilmente l'ha fatto perché "percepiva il gelato come troppo freddo e quindi voleva riporlo per poi mangiarlo in un secondo momento", solo che la memoria non l'assiste per ricordare la sequenza "corretta" che serve per svolgere una determinata azione. Non l'aveva mai fatto prima, ed è un comportamento che potrebbe innescare stupore, nervosismo da parte del caregiver. Quello che si deve imparare a fare, invece, è "cercare di guardare le cose attraverso i suoi occhi, lasciargliela fare e con mettere tutto a posto in un secondo momento". Lei, infatti, non potrebbe capire una reazione di nervosismo, ma emotivamente la turberebbe.

"Coglie l'atteggiamento, più che le parole che ormai non capisce", quindi se percepisce tensione si incupisce, mentre se "si dice una cosa brutta, ma con il sorriso", lei si tranquillizza.

L'importanza dell'assistenza

Stare accanto a una persona malata di Alzheimer e adattarsi ai sintomi in continua evoluzione non è sempre facile. Specialmente se si ha un lavoro, una famiglia, una casa da gestire, come nel caso di Maria Paola. Per questo è fondamentale non solo riuscire ad accettare e comprendere la malattia, ma anche avere un supporto.

Nel loro caso c'è una signora che aiuta Giuditta e Giampaolo quando Maria Paola non c'è. Questo è fondamentale per due motivi: da un lato perché può accompagnare Giuditta a fare una passeggiata, prendere un caffè, vedere persone, insomma, "farla sentire ancora viva". Dall'altro per permettere al caregiver di non sentirsi sopraffatto.

Anche dal punto di vista psicologico è molto importante essere guidati, perché permette prima di accettare e poi di essere "educati" alla gestione di una malattia come l'Alzheimer per far stare meglio il malato e per stare meglio con se stessi. Oggi ci sono tantissime associazioni e federazioni che si occupano di fornire supporto, pratico e psicologico, a chi si occupa di assistere malati con demenza o alzheimer.

"Il momento più bello è quello che si vive, finché non si crepa"

Alla fine della nostra chiacchierata, ho chiesto a Maria Paola di dare un consiglio alle persone che si trovano davanti alla diagnosi di Alzheimer per uno dei loro cari. "Direi loro di stare sul presente, di non guardare troppo in là" e poi aggiunge di ricordare che la persona "rimane, non scompare", bisogna solo fare uno sforzo in più per sincronizzarsi sul loro stesso canale di comunicazione. Giuditta, come dice Maria Paola, rimane "unica, come se ci fosse un marchio di fabbrica che non va via". Non è diventata incapace di fare le cose, semplicemente le vede da una prospettiva diversa.

Da sinistra a destra: Giampaolo, Maria Paola e Giuditta.

Siamo sulla porta, Giuditta mi vuole accompagnare fino al cancello esterno. Subito prima di uscire Giampaolo mi ferma e mi racconta un aneddoto, uno di quelli che si ricorda solo chi ha la vita disegnata sul viso.

"Un giovane dice a Gassman, parlando della sua infanzia: quelli erano i tempi belli della vita. Gassman, che era di mezza età, risponde: il momento più bello è quello che si vive, finché non si crepa". Saluto e vado via, ma appena tornata a casa appunto questa frase sull'agenda, per non dimenticarla.

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