Vita da elettrosensibili: le storie di chi ha rinunciato a tutto per proteggersi dai campi elettromagnetici

Paolo ha scoperto di non riuscire più a stare vicino a telefoni cellulari e altri dispositivi elettronici nel 1999. Elena afferma di essere elettrosensibile da cinque anni, dopo averne trascorsi almeno 30 lavorando con computer e altri device elettronici. Due storie che raccontano il disagio di un disturbo in cui ancora molti non credono.
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Sara Del Dot 24 Novembre 2018
* ultima modifica il 22/09/2020

Due persone lontane, due storie diverse tuttavia con lo stesso comune denominatore: una dolorosa intolleranza a tutte le onde elettromagnetiche emesse dai dispositivi elettronici di cui il mondo non può più fare a meno.

Paolo Orio

Presidente dell’Associazione italiana Elettrosensibili, elettrosensibile da 19 anni.

"Quando ero giovane mi sono diplomato da perito elettronico, quindi nei confronti delle tecnologie ho sempre avuto un atteggiamento piuttosto positivo."

Paolo Orio era una persona come tante. Si è diplomato come perito elettronico, e poi ha lavorato per tanti anni come veterinario. Ha una moglie e dei figli. Eppure, da ormai 19 anni, qualcosa gli impedisce di condurre una vita normale. Perché molto tempo fa, si è accorto improvvisamente di non poter più sopportare fisicamente la vicinanza a qualsiasi fonte di CEM, ovvero campi elettromagnetici. E la sua intera quotidianità ha subito un drastico stravolgimento.

“Nel 1996, per motivi lavorativi, ho comprato il mio primo telefono cellulare. Finalmente potevo essere connesso, perché avere un cellulare ti permette di avere il mondo in mano. Lo usavo principalmente per lavoro ma anche per sentire gli amici, prendere appuntamenti, fare lunghe chiacchierate con la mia fidanzata. Dopo tre anni di utilizzo costante, anche se non particolarmente esagerato come invece vedo che avviene oggi, accadde qualcosa di strano. Era il 1999 e in una mattina come tante altre il telefono squillò. Per rispondere lo presi in mano e lo avvicinai all’orecchio, avviando la comunicazione. Ma all’improvviso iniziai ad accusare dei sintomi che prima di allora non avevo mai avvertito: un forte mal di testa, uno strano formicolio sul viso, forte bruciore a livello del collo e, in particolare, sentivo un dolore al padiglione auricolare, come se fosse trafitto da spilli. Chiusi subito la comunicazione, dissi alla mia interlocutrice, una collega, di aspettare, che avrei provato ad allontanarmi dal dispositivo. Eppure mi accorgevo che, riavvicinando il telefono all’orecchio, i sintomi si presentavano di nuovo. In quel momento iniziai a pensare che fosse proprio il cellulare la causa di quel malessere.”

Questo è il primo contatto di Paolo con l’elettrosensibilità. Una serie di sintomi fastidiosi scaturiti durante una telefonata come tante, diventata però improvvisamente insopportabile. Ma la consapevolezza di ciò che sta accadendo dentro il suo corpo arriva soltanto dopo.

“Inizialmente non diedi molto peso a questa situazione, e continuai a usare il cellulare. Tuttavia notai che i sintomi, invece che regredire, peggioravano. Iniziai a manifestare mal di testa, emicrania, vuoti di memoria, difficoltà a concentrarmi, difficoltà a elaborare pensieri, a ricordarmi i nomi, facevo fatica ad addormentarmi, mi svegliavo presto e poco riposato, la mattina aprivo gli occhi ed era come se non fossi mai andato a dormire. Poi iniziarono a fare capolino altri sintomi, come tachicardia e aritmia. Mi resi conto che non facevo che peggiorare e che il problema era proprio il telefono, perché ogni volta che lo avvicinavo alla testa il malessere arrivava, e ogni volta che lo allontanavo i sintomi scemavano velocemente. Così, decisi di smettere definitivamente di usare il cellulare.”

Tutti sono costantemente connessi. Il mondo sembra un grande forno a microonde.

Paolo fa diverse prove per capire se è proprio il telefono a farlo stare così male, e il nesso di causa effetto ai suoi occhi è innegabile. Così, prende una decisione tanto logica quanto complicata. Abbandonare per sempre il telefono cellulare. Ma i problemi non finiscono con l’addio al dispositivo. Perché il problema sembra essere più grave del previsto.

“Ero talmente sensibilizzato, ormai, che quando uscivo di casa mi accorgevo dei cellulari che avevano in tasca le altre persone. Mi ricordo che una volta dissi a mia moglie che il telefono della persona che camminava accanto a noi avrebbe squillato entro pochi secondi. Lei non mi credeva. Dopo circa tre secondi il cellulare di quella persona si mise a suonare. Questo solo per far capire quanto mi ero sensibilizzato alle radiazioni elettromagnetiche non ionizzanti. Avere eliminato il cellulare non bastava più, perché percepivo tutte le altre sorgenti elettromagnetiche: router Wi-Fi, stazioni radio base di telefoni, antenne, elettrodotti, lo stesso computer portatile.”

Il disturbo non fa che crescere, quindi, e si riverbera in quasi ogni aspetto della vita di Paolo. Da quando esce di casa la mattina fino alla sera è costantemente esposto a campi elettromagnetici che lo fanno soffrire. Anche stare davanti al computer diventa un’attività quasi insopportabile a causa della connessione senza fili che lo circonda. E insopportabile diventa anche non essere capito da chi gli sta attorno ogni giorno.

“Chiaramente ero in una fase di totale smarrimento, incredulità, soprattutto perché le persone che ti stanno accanto non ti credono, dal momento che sono sintomi così strani e collegati a una tecnologia estremamente pervasiva. Tutti hanno in mano un cellulare, e il fatto che sia in commercio significa che non comporta problemi per la salute no? Il mio medico di base non capiva cosa avessi. Navigando in Rete, scoprii che esistevano molte altre persone come me, e che al mondo c’erano diversi ricercatori che si erano occupati di questo genere di disturbi. Così, avendo capito di essere in tanti, nel 2005 abbiamo deciso di unirci e fondare l’Associazione italiana elettrosensibili. Pian piano l’associazione è cresciuta, ci siamo dotati di medici e abbiamo offerto un servizio di aiuto, ascolto e comprensione, di scambio di esperienze ma anche un aiuto concreto in termini diagnostici.”

Ma avere trovato persone con il suo stesso problema non è la sola cosa che ha aiutato Paolo, oggi presidente dell’associazione. La sua vita, infatti, è stata completamente stravolta ed è stato costretto ad adottare una serie di misure per proteggere se stesso dall’esposizione ai CEM.

“Quando diventi elettrosensibile ti si capovolge tutto. Personalmente sono stato costretto a effettuare una totale bonifica del mio ambiente di vita quotidiana. Ho eliminato il Wi-Fi, non uso il cordless, non ho in casa lampadine a basso consumo energetico che emettono radiazioni. Non ho corrente vicino al letto, utilizzo il computer portatile solo con tre metri di cavo, ho schermato completamente l’automobile. Da vent’anni non uso il cellulare, posseggo solo un fisso e fuori di casa uso le cabine telefoniche, quelle che non sono ancora state vandalizzate. Se entro in un cinema o in un ristorante sono a disagio, perché poi sto male. Ed è così anche se prendo un treno, un aereo, se entro in un hotel, in un Airbnb, se vado in spiaggia, in autogrill, in biblioteca. Tutti sono sempre, costantemente connessi. Il mondo sembra un grande forno a microonde.”

Per reggere a questo bombardamento Paolo cerca di tenersi alla larga dalle fonti elettromagnetiche, di stare molto all’aria aperta, si sforza di resistere e di continuare a viaggiare per portare in giro la conoscenza di questo disturbo, anche se poi ha mal di testa e spasmi per giorni.

“Fortunatamente, ora lavoro in casa, che per me è come un rifugio. Ma devo portare avanti questa battaglia per tutte le persone che altrimenti non potrebbero avere voce, dal momento che non riescono neanche più a uscire di casa”.

Elena L.

57 anni, elettrosensibile da 5

“Sono diventata elettrosensibile cinque anni fa, quando hanno aumentato l’esposizione della popolazione ai campi elettromagnetici con l’implementazione del 4G. Ho sempre usato il computer, sono stata una dei primi farmacisti in Italia a informatizzare una farmacia, e inoltre spesso facevo traduzioni dallo spagnolo in casa e lavoravo in tribunale in sala ascolto, in cuffia. Dopo trent’anni di esposizione, sono diventata elettrosensibile.”

Elena L. (nome di fantasia) è leccese, ha 57 anni e da cinque non è più in grado di sopportare la presenza di campi elettromagnetici attorno a sé. Questa condizione è stata per lei talmente debilitante da farle trascorrere cinque anni infernali, in particolare il primo, in cui non riusciva più a trascorrere del tempo in casa propria a causa del Wi-Fi e dei computer utilizzati dai suoi vicini.

“Ho iniziato ad avvertire i primi fastidi quando usavo il telefono cellulare. Non mi piaceva tanto l’idea, anche se ero tranquilla perché tutti dicevano che non erano dannosi per la salute. In ogni caso, appena ho potuto ho iniziato a cercare dei mezzi per ridurre l’esposizione, tipo gli auricolari. A un certo punto, però, non sono più riuscita a usare niente.

Adesso tutti hanno deciso che non possono fare a meno di telefoni e tecnologia, ma sai di cosa non si può fare a meno? Della salute.

Stavo male anche solo a stare davanti al computer. Avevo mal di testa lancinanti, mi sentivo sempre stanchissima, non riuscivo a dormire. Più stavo a casa, peggio mi sentivo, tuttavia non avevo neanche la forza di uscire per distrarmi, e se la trovavo tornavo a casa e stavo malissimo comunque. Il primo anno è stato terribile, l’ho trascorso fuori di casa, per strada, dormendo da altre persone, non riuscivo più a mettere piede in casa mia.. Mi sono appoggiata a mia madre, che però era anziana, non capiva la situazione. Anche i successivi tre anni sono stati molto pensanti, ho trascorso diversi mesi tornando a casa la sera tardi, cercando di trascorrere fuori la maggior parte del tempo, avanti e indietro da casa di mia madre. Non potevo stare in casa mia quando c’erano i vicini con accesi computer e Wi-Fi.”

Un anno da incubo quello vissuto da Elena, che subito aveva avuto il dubbio si trattasse di elettrosensibilità, un disturbo di cui aveva sentito parlare in qualche reportage alla televisione, ma che nessun medico poteva diagnosticarle, dal momento che non è una patologia riconosciuta in Italia. Soltanto dopo essersi rivolta all’Associazione ha iniziato a capire cosa stesse succedendo.

“Io non sapevo nulla dell’inquinamento elettromagnetico, non mi ero mai posta il problema. Ma ogni volta che stavo davanti allo schermo del computer mi sentivo una morsa pazzesca in testa, come se mi stessero stritolando il cervello. Non lo definirei un dolore, forse più una tortura. Se mi allontanavo passava, ma non immediatamente. Se mi avvicinavo, stavo subito male. Alla fine, i vicini mi sono venuti incontro e hanno acconsentito a spegnere computer e Wi-Fi di notte, anche se è capitato spesso che tornassi a casa tardissimo per evitare di stare male, anche perché gli effetti mi durano per un bel po’ di giorni. Se accendono il Wi-Fi al piano di sotto devo uscire di casa. Perché sento il Wi-Fi, ma sento anche i telefoni, non posso accendere un pc e starci davanti più di trenta secondi che mi sento malissimo. E se ci sto un po’ di più, sto male per giornate intere. Se ne sono accorti tutti, soprattutto quando mi accorgevo, magari in piena notte, che c'erano in casa dispositivi accesi senza nemmeno vederli. Perché la persona elettrosensibile percepisce i campi elettromagnetici come se fossero una nebbia in cui si immerge.”

Da quando ha scoperto l’elettrosensibilità, Elena ha avviato campagne di conoscenza e consapevolezza in tutto il suo territorio, sebbene recarsi negli uffici comunali o anche solo scendere in strada la faccia soffrire molto. Perché, dice, la sua è una lotta contro una cosa che piace a tutti.

“Adesso tutti hanno deciso che non possono fare a meno di telefoni e tecnologia, ma sai di cosa non si può fare a meno? Della salute. Io mi sono arrangiata come posso. Continuo a fare le traduzioni ma le faccio a penna, che è come se io andassi a cavallo e tutti gli altri in Ferrari. Non posso fermarmi a parlare con le persone per strada, perché sono tutti sempre con il cellulare in mano e se chiedi di metterlo via crei dei muri. In casa mia ho tolto tutte le reti di metallo dei letti, posizionato il letto al centro della stanza, tolto tutti i cavi superflui e levato lo specchio che riflette le onde. Riesco a stare ferma soltanto in due o tre posti, praticamente vivo in cucina, ma a me sta bene perché solo poter stare a casa mia è un’enorme vittoria. Sicuramente questa è una patologia che isola, e va fatta capire agli altri pian piano. Eppure, sapere di non essere soli è importante.”

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