Anche in Italia arriva la nuova terapia a lunga durata contro l’HIV, la prof.ssa Castagna: “Ecco perché è una piccola-grande rivoluzione”

Si chiama «CaRLA» ed è una nuova terapia contro il virus dell’HIV basata su due farmaci “long-acting”. Somministrati con una doppia iniezione intramuscolare eseguita ognuna in un gluteo, promettono di migliorare ulteriormente la qualità di vita dei pazienti: il trattamento, infatti, può essere eseguito una volta ogni due mesi e non tutti i giorni.
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Kevin Ben Alì Zinati 1 Dicembre 2022
* ultima modifica il 01/12/2022
Intervista alla Prof.ssa Antonella Castagna Primario del reparto di Malattia Infettive dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano

Vivere con HIV, oggi, è diventata una “cosa normalissima”. Giusi Giupponi, presidente di Lila Como che convive con il virus da oltre 20 anni, ce lo aveva testimoniato mettendoci volto, cuore e vita: le più moderne terapie ci hanno permesso di temere un po’ meno il virus dell’immunodeficienza umana.

«Normalissima», sì, perché la medicina ha ridimensionato – in gran parte – il peso del suo trattamento e la qualità di vita di chi contrae l’infezione da HIV oggi è nettamente migliorata. Dei 21 farmaci che all’inizio della pandemia, negli anni ’80-’90, contraddistingueva il trattamento per fortuna non c’è più nemmeno l’ombra.

Oggi chi vive con HIV deve sempre sottostare a un percorso terapeutico che durerà per tutta la vita ma perlomeno può limitarsi a una singola compressa da assumere ogni giorno.

Convivere con l’HIV tuttavia non è sempre una cosa «facilissima». Per molti la terapia orale antiretrovirale porta con sé un peso sociale ancora parecchio alto e strettamente connesso alla necessità di ricordarsi ogni giorno dell’infezione o di doverla nascondere a famigliari, amici, colleghi.

La professoressa Antonella Castagna, primario del reparto di Malattia Infettive dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, in questo senso ci aveva «promesso» che la svolta sarebbe arrivata nel 2022 e che avremmo dovuto cerarla nei cosiddetti farmaci long-acting, ovvero terapie a lunga durata in grado di riscrivere le tempistiche della somministrazione innalzando alleggerendo anche quest'ultimo peso.

E la promessa è stata mantenuta. Dallo scorso luglio è arrivata finalmente anche in Italia «CaRLA», nome in codice con cui la comunità scientifica indica la nuova terapia a base di farmaci antiretrovirali long-acting. La professoressa Castagna, oggi che è la Giornata Mondiale contro l'Aids, l'ha definita “una piccola grande rivoluzione. Siamo passati da un’epoca in cui il trattamento consisteva in tanti farmaci a una compressa al giorno fino alla novità di oggi con una puntura ogni due mesi”. 

Professoressa Castagna, di cosa parliamo esattamente quando parliamo di terapia long acting contro HIV?

Parliamo della possibilità di far passare pazienti con infezione da HIV e una viremia negativa da un regime terapeutico orale quotidiano a una somministrazione intramuscolare ogni due mesi. Quella che noi oggi abbiamo disponibile in Italia è una terapia basata su due farmaci: uno è un inibitore dell’integrasi del virus e si chiama cabotegravir mentre l’altro, rilpivirina, è un inibitore non-nucleosidico della trascrittasi inversa. Sono farmaci di cui consociamo bene il profilo di tollerabilità ed efficacia.

Come funzionano?

I due farmaci vengono somministrati con una doppia iniezione intramuscolare eseguita ognuna in un gluteo che, al momento, dev’essere effettuata in ospedale. I farmaci long acting hanno una emivita molto lunga, significa che una volta somministrati rimangono nell’organismo in una concentrazione plasmatica elevata e sufficiente per inibire completamente la replicazione virale per lungo tempo. Ecco perché è importante che un paziente rispetti rigorosamente il calendario delle iniezioni. Se non si presentasse all’appuntamento previsto, la concentrazione del farmaco diminuirebbe lasciando al virus la possibilità di replicare e selezionare mutazioni associate a resistenza.

Questa terapia è accessibile a tutti i pazienti con HIV?

Al momento non è disponibile per chi inizia per la prima volta la terapia ma è comunque aperta a una quota consistente di pazienti. Oggi possiamo proporla a persone con una viremia negativa perché non si tratta di una terapia di prima linea. I pazienti eleggibili al trattamento non devono avere avuto precedenti fallimenti terapeutici né sviluppo di mutazioni che possono compromettere l’efficacia di questi farmaci e non devono avere una coinfezione di HIV e virus dell’Epatite B: una condizione che interessa il 7-8% dei casi. La terapia long acting per HIV, infatti, non consente di controllare la replicazione del virus HBV. Nonostante i criteri di selezione rigorosi, questo trattamento è comunque proponibile a una dimensione abbastanza ampia della popolazione, credo intorno al 30-50% dei pazienti.

L’ha definita una piccola-grande rivoluzione.

La terapia long acting offre un salto di qualità importantissimo perché allontana i pazienti dalla fatica quotidiana dell’assunzione della terapia orale, dalla necessità di doversi ricordare ogni giorno della terapia e dell’infezione. Rende più semplice la gestione del vivere quotidiano con i familiari, gli amici o sul posto di lavoro. Alcuni tra i primi pazienti cui abbiamo proposto il regime hanno dichiarato di aver cominciato a vivere davvero solo ora: il peso dalla terapia orale è maggiore di quanto possiamo pensare. La terapia long acting tuttavia ha anche un altro potenziale.

Cioè?

Ha il potenziale di favorire l’aderenza alle terapie. La frequenza di interruzione del trattamento si è molto ridotta rispetto al passato perché abbiamo terapie compatte, basate su una singola compressa, ben tollerate ed efficaci. Siamo quindi lontani dalla situazione in cui i pazienti abbandonavano le terapie perché erano mal tollerate, poco efficaci e gravate da un numero elevato di compresse. Ma il tema dell’aderenza rimane, soprattutto se pensiamo a un paziente con HIV giovane e asintomatico, per il quale la terapia orale, quotidiana, da assumere per decenni può costituire un peso per la propria qualità di vita. Con il long acting, invece, un paziente deve pensare alla terapia antiretrovirale una volta ogni due mesi. Rappresenta una possibilità per confrontarsi non quotidianamente con questa tematica infezione–terapia.

Quali sono secondo lei le cause che possono favorire l’interruzione del trattamento?

Frequentemente vi sono alle spalle fragilità individuali o condizioni di vita difficili. Poi vi sono situazioni contingenti che ostacolano l’aderenza: si parte per un viaggio e si dimentica il blister, si incappa in momenti in cui bisogna nascondere la terapia di fronte ad altri. Sono tante le occasioni della vita quotidiana che fanno sì che possano esserci dei cali di aderenza.

CaRLA oggi è disponibile in Italia e in altri paesi come l’Africa, dove HIV e Aids restano tutt’oggi minacce serie e quotidiane?

Questi regimi sono oggi poco proponibili per questi paesi: non c’è un accesso equo ai farmaci, spesso non vi è nemmeno la possibilità di monitorare l’efficacia delle terapie e di identificare la persona candidabile alla terapia. C’è però una grossa novità. Cabotegravir, uno dei due farmaci che compongono questo long acting, è stato approvato dalla FDA per la prevenzione dell’infezione da HIV.

Ci spieghi meglio.

Oggi esiste la possibilità di prevenire l’infezione da HIV attraverso la profilassi pre-esposizione, basata sull’assunzione quotidiana di tenofovir/emtricitabina via orale. Studi importanti hanno dimostrato che l’iniezione intramuscolare di cabotegravir ogni due mesi ha un’efficacia superiore a tenofovir/emtricitabina nel prevenire le infezioni da HIV. Quindi in alcune regioni dell’Africa la terapia long-acting è un ipotesi lontana ma una prevenzione dall’infezione è invece già una realtà importante, soprattutto se si considera che nelle regioni subsahariane ogni settimana si infettano ancora oggi circa 5mila donne tra i 15 e 24 anni.

I long acting rappresentano già un deciso passo nel futuro, ma proviamo a guardare anche un po’ oltre: secondo lei quale sarà la prossima svolta?

I trattamenti long-acting che abbiamo oggi rappresentano il primo passo. Vi sono altri farmaci a lunga durata in sviluppo tra cui uno lenacapavir, che prevede una somministrazione ogni 6 mesi. Il mondo del long acting si sta aprendo adesso ma non dobbiamo dimenticare gli obiettivi finali per controllare la pandemia da HIV: il vaccino per prevenire nuove infezioni e terapie in grado di eradicare completamente l’infezione, eliminando quindi il virus dal nostro organismo.

A che punto siamo sui vaccini?

Riguardo al vaccino ci sono due strade aperte: quella del vaccino preventivo, che proteggerebbe una persona sana dal rischio di infezione e quella del vaccino terapeutico, pensato per ridurre la necessità della terapia antiretrovirale in persone già infette. L’attenzione maggiore, così come gli investimenti più significativi, oggi riguardano il vaccino preventivo. (Qui ti avevamo raccontato dello studio del dottor Paolo Lusso). Al San Raffaele stiamo partecipando a un grande studio internazionale, chiamato Mosaico, che sta studiando l’efficacia di un vaccino preventivo che utilizza un vettore virale, adenovirus 26. I risultati dovrebbero arrivare al termine del prossimo anno. È detto “mosaico” perché si basa sull’utilizzo di un numero elevato di antigeni per evocare una risposta immunitaria sufficiente contro HIV, che sappiamo essere un virus un in grado di variare moltissimo.

E con il vaccino terapeutico?

Vi sono esperienze più piccole, una partirà anche al San Raffaele tra poco, è una strada ancora agli albori ma è sicuramente una prospettiva da esplorare intensamente.

È difficile fare previsioni, se non impossibile. Qual è la sua sensazione sui tempi per un vaccino? 

Covid-19 ci ha insegnato a sperare in tempi più rapidi per la realizzazione di un vaccino. Vedremo se è possibile applicare l’esperienza di questi due anni anche ad HIV. Posso dire questo: spero che non dovremo aspettare ancora molti anni.

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