C’è un legame tra il livello di inquinamento e la diffusione del virus?

Studi specifici per questo virus non sono ancora stati portati a termine, ma tutte le evidenze finora lasciano intendere che aree più inquinate siano più esposte al rischio di contagio e a conseguenze più gravi per le persone: vediamo perché.
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Gianluca Cedolin 31 Marzo 2020

Gli scorsi giorni abbiamo analizzato la correlazione tra la diffusione del coronavirus e la riduzione dell’inquinamento: molti dati, immagini e studi hanno dimostrato che il blocco forzato del traffico e della produzione industriale ha portato a un calo delle emissioni e a un miglioramento della qualità dell’aria che respiriamo (una notizia comunque tutt’altro che buona, visto quello che sta comportando la pandemia, e il possibile effetto rimbalzo una volta finita l’emergenza).

C’è tuttavia un altro livello di analisi che si è sviluppato in questi giorni, quello che considera un eventuale legame tra il livello dell’inquinamento e la diffusione del coronavirus. Alcuni studi stanno cercando di rispondere a delle domane come: zone con maggior inquinamento sono più soggette al contagio? Il virus viaggia meglio in ambienti più inquinati? E, in sostanza, l’inquinamento ha qualcosa a che fare con la situazione grave di Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto?

Il particolato trasporta il virus

Una pubblicazione di Greenpeace, che fa ordine su quanto detto finora in proposito, parte con l’analizzare l’ipotesi che il particolato fine agisca da vettore di trasporto del virus. Un documento di posizione della Sima (Soc. italiana di medicina ambientale), condiviso con le università di Bologna e Bari, cita delle pubblicazioni scientifiche che correlano l’incidenza dei casi di altre infezioni virali con le concentrazioni di particolato atmosferico. E in merito al Covid-19, il documento individua una simmetria tra superamenti dei limiti delle concentrazioni di Pm10 e numeri di casi infetti.

Ma si tratta di un documento di posizione, come detto, non di una pubblicazione scientifica: non viene quindi dimostrata con metodo scientifico tale correlazione, ma è solo evidenziata, anche basandosi su della letteratura scientifica relativa ad altri virus. Quindi tecnicamente, pur essendoci delle evidenze, non esiste una prova scientifica della correlazione tra diffusione del coronavirus e concentrazione di particolato. Il documento del Sima è comunque un punto di partenza plausibile, su cui condurre analisi scientifiche in merito. Uno studio fatto sulla Sars in Cina nel 2002-2003 mostrava che il rischio di morte era doppio nelle aree più inquinate, rispetto a quelle con l’aria migliore.

Esposizione all’inquinamento e coronavirus

Un secondo aspetto da considerare, analizzato sempre nel lavoro di Greenpeace, riguarda la mortalità dovuta all’inquinamento. Secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, nel 2016 sono morte in Italia 76.200 persone per cause correlate all’elevata concentrazione di Pm2,5, NO2 e O3, in particolare al primo parametro, presente a livelli drammatici nella pianura padana. Esistono tantissimi disturbi del sistema respiratorio (e cardiocircolatorio) associati all’esposizione cronica ad alti livelli di inquinamento, e quindi la popolazione della pianura padana potrebbe subire in maniera più grave una pandemia che attacca il sistema respiratorio. In sostanza: le persone di quelle zone respirano aria peggiore, sono quindi più esposte a patologie respiratorie, che a loro volta aggravano il quadro clinico di chi si ammala di Coronavirus.

La stessa cosa, del resto, si può dire dei fumatori. Come rileva l’Istituto superiore di sanità, “un terzo in più dei fumatori positivi al Covid-19 presentava all’atto del ricovero una situazione clinica più grave dei non fumatori, e per loro il rischio di aver bisogno di terapia intensiva e ventilazione meccanica è più che doppio”. È facile che anche per le persone con problemi connessi all’esposizione cronica all’inquinamento i rischi siano simili.

Conclusioni

In sostanza, conclude Greenpeace, “per quanto non si possa arrivare a una conclusione generale quantitativa, si può affermare che l’inquinamento cronico dell’aria, con picchi di concentrazione di polveri sottili e altri inquinanti, agisca come fattore peggiorativo nei casi di epidemie. E questo sia come veicolo di diffusione del virus, sia come fattore di stress cronico che rende la popolazione più vulnerabile agli effetti dell’epidemia. In attesa di studi più ampi e precisi, possiamo concludere che delle politiche ambientali severe, che mirino a migliorare di molto la qualità dell’aria, sono importanti in assoluto, e l’emergenza Coronavirus non fa altro che rafforzare questa conclusione.