Che pesce mangi? Il triste destino della produzione ittica italiana

Se non indicato espressamente, le informazioni riportate in questa pagina sono da intendersi come non riconosciute da uno studio medico-scientifico.
Il pesce italiano che mangiamo ormai è pochissimo. La percentuale di importazione nel settore ittico ha raggiunto l’80%. Questo è dovuto anche al fatto che nei nostri mari i pescherecci sono sempre meno e la produzione ha rallentato a causa dello spopolamento della fauna marina. Ma c’è un altro problema: il pesce che mangiamo al ristorante potrebbe non corrispondere a quello che ci viene proposto.
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Sara Del Dot 24 Ottobre 2018

Hai mai pensato che il pesce spada italiano che il cameriere ti ha appena portato al tavolo potrebbe essere in realtà uno squalo smeriglio proveniente da chissà dove? Anche se lo sospettassi, dovresti essere un grande esperto ittico per riconoscerlo tagliuzzato dentro la zuppa o gli spaghetti, perché le informazioni sulla provenienza di quel pesce non le troverai scritte sul menù del ristorante. Gli italiani mangiano sempre più pesce, e continueranno a farlo. Il 50% lo consumano in mense o nei ristoranti, dove vige l’obbligo di indicare se si tratta di un prodotto fresco o congelato, ma non quello di indicarne la provenienza geografica. In poche parole, può capitare che un pesce venga cucinato e servito al posto di un altro.

"Non sapevo che fosse straniero"

È Coldiretti Impresa Pesca a denunciare che “due piatti di pesce su tre che si consumano al ristorante sono di importazione e nessuno lo sa”. Inoltre, non presentando le garanzie del prodotto firmato Made in Italy e non avendo i ristoranti l’obbligo di segnalarne la provenienza, può capitare che un pangasio del Mekong venga proposto come cernia, o un polpo del Vietnam sia spacciato come italiano, o ancora un halibut atlantico sia venduto come sogliola, un filetto di Brosme come baccalà, un pangro come dentice rosa, senza contare le vongole turche e i gamberetti cinesi, argentini o vietnamiti.

Qualche dato sul pesce in Italia

Gli italiani mangiano in media 28,9 kg all’anno di pesce pro capite, ma è importante sapere che l’80% del pesce consumato nel nostro Paese è, in realtà, straniero. Infatti, nei mari italiani vengono pescate 180.000 tonnellate di pesce e, parallelamente, più di un milione viene importato da Spagna, Paesi Bassi e Grecia. Inoltre, il 40% delle risorse ittiche importate proviene da paesi extracomunitari. La notizia più preoccupante, però, riguarda la qualità del pesce importato. Perché, di fresco, ce ne sono soltanto 240.000 tonnellate, una percentuale davvero irrisoria. Tutto il resto è surgelato o preconfezionato, insomma, niente a che vedere con quello che ci offre il pescatore al mercato del porto.

Ma perché così poco pesce italiano?

Con la crisi delle risorse ittiche, verso la fine degli anni Ottanta, era chiara la necessità di rallentare l’attività di pesca sfrenata, così sono stati posti dei blocchi alla pesca in alcune zone, e le imbarcazioni e il personale hanno subito riduzioni consistenti. Infatti, nell’arco di 25 anni i pescherecci sono passati da un numero di circa 18.000 a soli 13.000, grazie anche agli incentivi per la rottamazione, e i fermo pesca sulle imbarcazioni lungo le coste del mar Adriatico, dello Ionio e del Tirreno hanno ridotto notevolmente la produzione di pesce nostrano. Il problema è che sono state imposte norme molto rigide dall’Unione europea, che però non ha possibilità di regolare anche le attività di pesca dei paesi extra comunitari. Questi ultimi, essendo soggetti a normative molto meno rigide delle nostre, possono quindi importare il pesce e venderlo a prezzi molto più competitivi.

Tonino Giardini, Responsabile nazionale del settore pesca e acquacoltura della Coldiretti, ci segnala proprio questa problematica: “L’Unione europea impone ai nostri produttori regole ferree sul welfare nei confronti dei lavoratori, sul rispetto dell’ambiente, sul rispetto dell’etica e dell’utilizzo di attrezzi non impattanti. È chiaro che il costo di produzione per i nostri produttori è alto. Inoltre ci troviamo a combattere in un mercato dove arriva un prodotto, anche buono, da tutte le parti del mondo, dove però certe regole non si rispettano, quindi questi prodotti arrivano con prezzi molto bassi e sono vincenti nei confronti dei nostri produttori che per coprire le spese devono mantenere dei prezzi più alti.”

Inoltre, il rischio di queste normative è che vadano a causare un effetto boomerang, consentendo ai Paesi attigui di pescare negli stessi mari in cui sono in atto fermo pesca per le nostre imbarcazioni, ma costringendoci ad acquistare gli stessi pesci che, se potessimo, pescheremmo noi. “Se le regole non sono chiare e non sono condivise da tutti”, prosegue Giardini, “finisce poi che chi le rispetta ne paga le conseguenze da un punto di vista economico.”

Controlla bene le etichette

L’Unione europea impone delle delle norme molto severe che obbligano a segnalare sempre l’origine del pesce. Questa tracciabilità accompagna il pesce in ogni suo passaggio fino all’ultimo livello della catena (la tua cucina o quella del ristorante in cui sarà servito). Il problema è che sono norme e codici talmente tecnici che le persone comuni, non esperte in materia, non sempre possono essere in grado di comprenderle e quindi capire se quel determinato pesce è italiano oppure no. Abbiamo già detto che sul menù del ristorante non puoi farlo, ma al bancone del supermercato sì. Coldiretti Impresa Pesca consiglia quindi di controllare sempre bene le etichette, dove per legge deve essere segnalata l’area di pesca (Gsa).
Quelle da preferire sono:

  • Gsa 9: mar Ligure e Tirreno
  • Gsa 10: Tirreno centro meridionale
  • Gsa 11: mari di Sardegna
  • Gsa 16: coste meridionali della Sicilia
  • Gsa 17: Adriatico settentrionale
  • Gsa 18: Adriatico meridionale
  • Gsa 19: Jonio occidentale
  • Ma anche le attigue Gsa 7 (Golfo del Leon), Gsa 8 (Corsica) e Gsa 15 (Malta).