Mentre in Italia è un tema sempre più caldo nella corsa alle lezioni del 25 settembre, in Giappone il nucleare diventa una delle strade energetiche concretamente aperte.
Il ritorno forte all’atomo sembra la via scelta dal Paese del Sol Levante per respingere indietro la crisi dei costi energetici innescata dalla guerra in Ucraina e, allo stesso tempo, per raggiungere l’obiettivo della carbon neutrality entro il 2050.
Ben 11 anni dopo l’incidente di Fukushima, che come sai è stato il secondo più grave disastro nucleare della storia dell’uomo dopo Chernobyl nel 1986, il Giappone è deciso a ridare slancio alla propria industria energetica basata sul nucleare.
Fumio Kishida, primo ministro giapponese, recentemente ha infatti annunciato che presto verranno riavviate alcune delle centrali inattive e che verranno avviate le valutazioni per la realizzazione di impianti di ultima generazione.
“In particolare, per quanto riguarda le centrali nucleari, oltre a garantire il funzionamento delle 10 unità già riavviate, il governo adotterà tutte le misure possibili per riavviare le centrali nucleari di cui è già stata autorizzata l’installazione” Ha dichiarato Kishida, sempre più convinto che nel grande mondo dell’energia verde debba avere un posto anche l’atomo.
Il primo ministro giapponese ha chiesto che nove dei dieci reattori già riavviati entrassero in funzione e a pieno regime già durante quest’inverno, così da mettere il paese subito sulla strada dell’indipendenza energetica. “Questo garantirebbe circa il 10% del consumo totale di elettricità del Giappone”.
Kishida ha anche sottolineato che parte infrante di questo progetto di «seconda vita» del nucleare giapponese non potrà prescindere dal prolungamento del periodo operativo di una centrale, “con la premessa di garantire la sicurezza”.
Secondo quanto riportato dalla World Nuclear News, infatti, dal 2013 i reattori giapponesi hanno un periodo di funzionamento di 40 anni, estendibili una sola volta per un massimo di 20 anni.
Perché parlo di «seconda vita» dell’atomo giapponese? Forse non lo sai, ma prima che uno tsunami si abbattesse contro la centrale nucleare di Fukushima Daiichi nel marzo del 2011 innescando una reazione a catena che portò all’esplosione di uno dei reattori, il Giappone era uno dei paesi più «nuclearizzati» al mondo dal punto di vista energetico: le sue centrali fornivano infatti quasi il 30% dell'elettricità del paese.
Dopo l’incidente le cose sono ovviamente cambiate. Il Paese ha fatto marcia indietro sul nucleare, tenendo spenti la maggior parte delle propri reattori. Ad oggi, infatti, solo 10 su 39 hanno presentato standard di sicurezza regolamentari e soddisfacenti e sono tornati in operatività.
Negli ultimi tempi però altre 17 centrali hanno avviato l’iter per la ripartenza. Lentamente, infatti, il nucleare si è smacchiato – in parte – dell’onta pubblica post-Fukushima e ha riconquistato la fiducia di un’importante fetta di popolazione (complici forse i prezzi del carburante e dell’energia) nonché di alcuni esponenti del governo.
Secondo le stime, però, ad oggi il calo di produttività del sistema energetico è ancora insufficiente: pensa che nel 2021 il paese ha tratto dall’atomo «solo» il 7,2% del proprio fabbisogno di elettricità.
Se però il Giappone concretizzasse davvero il ritorno forte sul nucleare rivoluzionando così la propria politica energetica, potrebbe cominciare a ridurre la propria dipendenza energetica, oggi stimata in un drammatico 94% di dipendenza per quanto riguarda la propria fornitura di energia.
In questo modo – con molta probabilità – contribuirebbe anche ridisegnare i contorni del nucleare, non solo nel dibattito pubblico, ma anche all’interno della sfida contro la crisi energetica e il cambiamento climatico. Noi ce lo siamo già chiesti: il nucleare può far rima con Climate Change?