Il primo round per un accordo internazionale sull’abbandono della plastica non è andato bene

Lo scopo è quello di arrivare a un accordo internazionale e vincolante entro il 2024, ma ci sono già le prime defezioni da parte di Stati Uniti, Cina e Arabia Saudita. Dopo i grandi discorsi della Cop27, le azioni concrete faticano ad arrivare.
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Giulia Dallagiovanna 6 Dicembre 2022

Tra il dire e il fare, c'è di mezzo l'accordo internazionale sulla plastica. Alla Cop27, abbiamo ascoltato il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, dichiarare che "evitare una catastrofe climatica non è solo un imperativo nei confronti del presente e del futuro, ma anche agli occhi della storia". Oggi vediamo Washington ritirarsi dal trattato globale per lo stop al materiale più inquinante che utilizziamo al momento: la plastica. Non è la sola. Anche Cina e Arabia Saudita avrebbero fatto un passo indietro nei confronti della possibilità di un documento vincolante e invocano piuttosto l'adozione di obiettivi nazionali, studiati ad hoc dal singolo Stato per se stesso. Al di là di tutti i discorsi più o meno enfatici, lo stato dell'arte oggi è questo.

Annunciato lo scorso marzo a Nairobi, Kenya, per Antonio Guterres, segretario generale dell'ONU, doveva essere "l'accordo più importante in materia ambientale dopo quello di Parigi sui cambiamenti climatici". All'epoca, 175 Paesi del mondo si erano detti favorevoli ad aderire a un percorso internazionale e vincolante per contrastare l'inquinamento da plastica. Percorso che avrebbe dovuto prendere il via nel 2024 con la firma di un trattato internazionale e vincolante.

Ma il primo giro di negoziati, l’Intergovernmental negotiating committee 1 (INC-1), ha già dato fumata nera. L'obiezione principale riguarda la necessità di agire in modo più mirato contro le tipologie di plastica che rappresentano davvero un problema per l'ambiente e "salvare", invece, tutte quelle che rimangono importanti per lo sviluppo socioeconomico di un Paese.

Obiezione interessante, che arriva a poche settimane dalla pubblicazione di un report di Greenpeace USA e di uno studio dello University College di Londra che sembrano smantellare le acrobazie retoriche dei detrattori dell'accordo. Il primo ha mostrato come, proprio negli Stati Uniti, si ricicli appena il 5-6% di tutta la plastica prodotta. Il secondo ha portato a una scoperta ancora più preoccupante: il 60% della plastica classificata come compostabile non riesca a decomporsi del tutto e rischia spesso di rimanere intatta anche quando viene riutilizzata in orti e giardini. È chiaro che i maggiori produttori di plastica stiano cercando di aggirare il problema e far valere i propri interessi.

Negli USA si ricicla solo il 5-6% di tutta la plastica utilizzata

Per l'ong Break Free from plastic qualche aspetto positivo, però, c'è stato. Prima di tutto, hanno trovato voce anche delegati di Paesi che spesso rimangono in secondo piano rispetto alle grandi decisioni dei leader internazionali: gli Stati dell'America Latina, le nazioni del Pacifico compresi i piccoli arcipelaghi, i Paesi africani e i Caraibi. Hanno partecipato inoltre diversi rappresentanti delle società civile e di realtà impegnate nella battaglia per la riduzione dell'uso della plastica.

I risultati più concreti, al momento, sono "la richiesta di riduzione dell'uso e delle produzione di plastica, dell'eliminazione delle sostanze tossiche associate al cicolo della plastica, la protezione della salute umana e la necessità di una transizione equa". Richieste che sono state appoggiate, almeno nelle intenzioni, da diversi stati nonché da due multinazionali, Nestlè e Unilever, che sono tra i peggiori responsabili dell'inquinamento da plastica a livello globale.