
Una delle ragioni per cui la fusione nucleare è dipinta come la soluzione ai problemi energetici del futuro è racchiusa in una parola: sostenibilità.
È vero, oggi dobbiamo ancora riuscire a costruire una struttura sufficientemente grande e resistente per riprodurre sulla Terra la stessa reazione che avviene nel Sole e nelle stelle e dunque controllare altissime temperature e far scontrare tra loro atomi di deuterio e trizio.
Dobbiamo ancora capire se sarà un Tokamak o uno Stellarator, in realtà.
Una volta però che l’avremo realizzata e avremo trovato il modo di accenderla e utilizzarla per produrre più energia di quella servita per innescarla, i giochi sarebbero fatti. Lo sfruttamento di questa reazione atomica, secondo molti, ci aprirà le porte di quel futuro di cui tutti parlano.
Prima di tutto perché si preannuncia una fonte di energia inesauribile e illimitata visto che il suo combustibile è composto da due isotopi dell’idrogeno: un elemento che si può facilmente estrarre dall’acqua e di cui il nostro Pianeta è ricchissimo.
La fusione, poi, non genererebbe alcun tipo di emissione e non produrrebbe scorie dal momento che l’unico materiale di scarto frutto della sua attività sarebbe l’elio, un elemento più pesante dell’idrogeno ma senza alcun impatto ambientale.
Sommando tutti questi elementi, ci siamo convinti insomma che questa tecnologia ci permetterà finalmente di produrre una forma di energia “pulita”. Ma è davvero così? La fusione sarà green per davvero? Ne abbiamo parlato con il dottor Matteo Iafrati, ricercatore dell’Enea ed esperto di fusione nucleare.
La fusione è davvero una fonte di energia pulita e sostenibile al 100%?
Sì, ma la risposta ha bisogno di un contesto per essere vera al 100%. Dobbiamo prima di tutto capire cosa vuol dire “pulita”. Sia chiaro: anche la fusione emette radiazioni. Un Tomakak, quando è in azione, emette particelle neutroni che che sono molto energetiche e quindi radioattive. La macchina stessa, così come quelle radiogene utilizzate nelle diagnosi negli ospedali, sono macchine che quando funzionano producono radiazioni che inducono trasmutazioni nel materiale stesso di cui è fatta la macchina. La fusione ha a cuore questo problema e la comunità scientifica sta lavorando per risolverlo.
Come?
Da tempo si stanno studiando una serie di materiali per ovviare a questo problema. Ogni macchina per la fusione nucleare verrà inevitabilmente esposta al bombardamento di queste particelle energetiche. Dopo anni di funzionamento e quindi di attivazione radioattiva oltre una soglia limite, verrà spenta. Questi materiali che sono allo studio hanno una corta emivita. Significa che non si raffredderanno -e non smaltiranno la propria radioattività – in tempi lunghissimi come avviene oggi per i materiali dei
vecchie reattori a fissione: le famose scorie. Essi perderanno la propria radioattività in poche decine d’anni. Questo ovviamente semplificherà di molto la gestione di tutto quello che è la parte di rifiuto nucleare. Avere scorie a lunga vita è un problema, lo sappiamo, ma avere scorie che nell’ordine di decine di anni
Non è vero dunque che la fusione non produce scorie.
Il rifiuto, nella fusione, è la macchina stessa. È vero però che non produce scorie a lungo termine.
Utilizzare deuterio e trizio al posto dell’uranio rende la fusione più sostenibile?
Questi elementi sono più facili da reperire rispetto all’uranio usato nella fissione, è vero. L’idrogeno è l’atomo più diffuso dell’universo e il detuterio, che è il primo isotopo dell’idrogeno, è abbastanza diffuso in natura. In un metro cubo di acqua di mare è contenuto abbastanza deuterio da soddisfare il fabbisogno energetico di tutta la vita di un cittadino quadratico europeo.
Però…
Il trizio è un isotopo radioattivo dell’idrogeno, ha due neutroni e non uno come il deuterio ma non si trova in natura perché ha un’emivita molto breve, di 12 anni e mezzo. Significa, in pratica, che quello prodotto in natura ormai è decaduto. Può essere prodotto nei reattori a fissione, uno degli ultimi a farlo si trovava in Canada, oppure deve essere prodotto artificialmente. E questo potrebbe essere un problema. La proposta della comunità che si occupa della fusione è quella di utilizzare il litio, un elemento leggero che si trova in natura sotto forma di due isotopi (litio 6 e 7).
Come?
Sappiamo che le reazioni di fusione vedono un deuterio e un trizio fondersi creando un nucleo di elio e un neutrone. Questo neutrone è ciò che serve rallentare in modo da utilizzarlo per riscaldare l’acqua, creare vapore e generare elettricità. L’idea è quella di far interagire questo neutrone con un atomo di litio. Se un atomo di litio interagisce con un neutrone si rompe in due atomi più piccoli, un elio e, appunto, un trizio.
In pratica si vorrebbe innescare una reazione in grado di auto-sostenersi.
Si sta lavorando per dotare il Tokamak di un particolare componente realizzato con materiali pesanti e leggeri come il litio con il quale interagirebbe il neutrone generato da una precedente reazione di fusione. In questo modo il litio verrebbe utilizzato come combustibile per altre reazioni mentre i componenti più pensati servirebbero per rallentare i neutroni, scaldare l’acqua e generare il vapore. Un circolo che si auto alimenta e che renderebbe l’intera processo di produzione di energia da fusione decisamente più sostenibile. Iter sta cercando di mettere insieme la tecnologia per superare questi scogli. E deve farlo in maniera integrata, contemporaneamente.