Col termine autolesionismo si fa riferimento a tutti quei comportamenti deliberatamente orientati al provocarsi dolore fisico. Questi comportamenti non hanno a che fare necessariamente con tentativi di suicidio o desiderio di togliersi la vita.
Invece includono, ad esempio, il tagliarsi la pelle con diversi tipi di oggetti affilati, l’infliggersi bruciature e marchiarsi con sigarette o oggetti roventi. L’autolesionismo infatti è definito come un “danno deliberato e autoinflitto al proprio corpo senza intento suicidario e per scopi non socialmente accettati”.
L’autolesionismo è un disturbo che colpisce il 6% della popolazione adulta e oltre il 15% degli adolescenti e dei giovani adulti. Particolarmente diffuso nella popolazione psichiatrica, si presenta di frequente all’interno dei disturbi di personalità borderline, ma può comparire anche in pazienti affetti da disturbi d’ansia, depressione, disturbi del comportamento alimentare o disturbi di personalità diversi dal borderline. La natura della patologia, solo di recente riconosciuta come classe diagnostica a se stante, è assai variegata: molteplici sono, infatti, le modalità con cui ci si può fare del male e molteplici sono anche le cause che spingono a condotte autolesive.
Sebbene gli atti autolesionisti abbiano una natura diversa rispetto ai tentativi di suicidio, esiste un forte legame predittivo tra i primi e i secondi, che sottolinea ulteriormente la necessità di conoscere ed intervenire tempestivamente su questa forma di sofferenza.
Nonostante l'autolesionismo sia considerato un fattore di rischio per il suicido, non è quest'ultimo l'obiettivo. "Chi si ferisce – spiega il CentroMoses – cerca trasformare in sofferenza fisica (più reale e facile da gestire) una sofferenza emozionale (interiore, che non si sa come gestire). La sofferenza fisica distoglie l’attenzione da quella interna e diventa una strategia disadattiva di coping. Oppure chi si ferisce lo fa per punirsi, o per comunicare agli altri il proprio disagio (la ferita è la materializzazione della sofferenza)".
Anche se l’autolesionismo non ha come obiettivo il suicidio, le ricerche ci dicono che chi soffre di autolesionismo ha molte più probabilità di tentare un suicidio rispetto ad altre psicopatologie.
Ciò che in letteratura è definito "deliberate self harm" – in italiano "auto-danneggiamento intenzionale"- comprende un ventaglio di comportamenti patologici, riconducibili a tre categorie principali:
Le manifestazioni tipiche delle condotte autolesionistiche comprendono una serie di segni e segnali sia fisici che comportamentali. Quelli fisici comprendono:
Per quanto riguarda le manifestazioni comportamentali e le caratteristiche di personalità dei soggetti autolesionisti:
Statisticamente le aree del corpo più colpite da atti di autolesionismo sono zone che possono essere facilmente nascoste e/o non visibili dagli altri, come braccia, gambe e torso, malgrado questo ogni parte del corpo può essere un possibile bersaglio di questi atti.
La messa in atto di autolesionismo consente di focalizzare la propria attenzione sul dolore fisico. Le motivazioni sottostanti la messa in atto dell’autolesionismo sono in genere relative la necessità di uscire da uno stato percepito di profondo vuoto per riconnettersi alla realtà e la gestione di stati emotivi spiacevoli percepiti come altrimenti non maneggiabili.
Il comportamento autolesionistico sposta così l’attenzione dal dolore emotivo a quello fisico, vissuto come più tollerabile. Il dolore fisico in un primo momento allenta la tensione, generando sollievo, e allontana da esperienze emotive che non si vogliono sperimentare. Nel tempo però ciò rischia di generare nuove esperienze emotive spiacevoli, quali colpa e vergogna per aver messo in atto il comportamento.
L’efficacia dell’autolesionismo, in relazione ad entrambe le funzioni descritte, aumenta la possibilità di rimetterlo nuovamente in atto, e quindi favorisce l’instaurarsi di circoli viziosi che mantengono il problema nel tempo. L’autolesionismo può rappresentare anche una forma di auto-punizione: il senso di colpa e l’autocritica possono elicitare condotte autolesive in soggetti vulnerabili.
Il comportamento autolesionistico può rappresentare infine una modalità disfunzionale attraverso la quale ricercare attenzione, richiedere aiuto o comunicare agli altri il proprio disagio. Un gesto estremo utilizzato al fine di urlare al mondo la propria esistenza/presenza e la sofferenza che non si è in grado di comunicare a parole.
I fattori di rischio, ovvero quelle condizioni che possono aumentare la probabilità che si verifichino episodi di autolesionismo possono essere distinti in fattori di rischio individuali e sociali.
L’autolesionismo è molto diffuso tra gli adolescenti e i giovani adulti. L’incidenza di tale fenomeno in queste fasce d’età oscilla tra il 15-20% e l’esordio si aggira tra i 13 e i 14 anni. Ricerche recenti suggeriscono che pensieri e comportamenti autolesivi si manifestino anche in soggetti più giovani, minori di 14 anni; inoltre hanno riscontrato che i pensieri autolesivi nelle ragazze tra i 13 e i 14 anni hanno una prevalenza del 22%, e fino al 15% di esse hanno tentato di farsi del male almeno una volta negli ultimi 6 mesi.
L’autolesionismo in adolescenza è associato a depressione, stress, ansia, disturbi della condotta e abuso di sostanze e a relazioni familiari disfunzionali, isolamento sociale e basso rendimento scolastico.
Il DSM-5 (2013) include “Autolesionismo non suicidario” (NSSI: Not Suicidal Self Injury) come categoria diagnostica distinta. Lo definisce come una serie di atti intenzionalmente autolesivi nei confronti del proprio corpo condotti per almeno 5 giorni nell’ultimo anno.
La condotta autolesiva per essere tale deve essere preceduta da una o più delle seguenti aspettative:
Inoltre, il comportamento autolesivo deve essere associato ad almeno uno dei seguenti sintomi:
Infine per essere tale deve provocare disagio significativo.
I trattamenti più efficaci nella cura di questo disturbo sono:
Essendo una patologia che comporta severe e ripetute lesioni e che spesso si manifesta come parte di una sintomatologia più estesa, è bene rivolgersi ad un professionista della salute mentale (psicologo, psicoterapeuta o psichiatra) il prima possibile per evitare che il disturbo diventi cronico.
(Scritto da Samanta Travini, psicologa, il 12 febbraio 2021; Modificato da Maria Teresa Gasbarrone il 28 aprile 2023)