Come nascono aggressività e comportamenti antisociali?

Le cronache degli ultimi giorni ci hanno riportato un fatto gravissimo: l’omicidio di un ragazzo di 21 anni, Willy Monteiro Duarte, picchiato a morte a Colleferro, vicino a Roma. La domanda che ti sarai fatto anche tu sarà come sia possibile scatenare tutta questa violenza gratuita. Ogni situazione naturalmente ha le sue caratteristiche, ma possiamo provare a capire insieme dove e come nasca l’aggressività in una persona.
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Dott.ssa Samanta Travini Psicologa Psicoterapeuta
14 Settembre 2020 * ultima modifica il 14/09/2020

L’aggressività è qualcosa di connaturato all’essere umano. Può avere un duplice destino, ovvero tramutarsi in condotte socialmente accettabili oppure generare comportamenti violenti finalizzati al produrre sofferenza negli altri. I meccanismi che presiedono alla sua genesi, le condizioni che la incrementano e le procedure che la cronicizzano sono tuttora oggetto di analisi nell’ambito delle scienze della mente.

Cos'è l'aggressività

Esistono diverse definizioni che esplicitano il costrutto di aggressività. Volendo sintetizzare, si può definire l’aggressività umana come un comportamento intenzionale che ha come obiettivo quello di procurare sofferenza a un altro individuo della stessa specie, provocandogli delle lesioni psicologiche o materiali.

Molto probabilmente l’origine dei comportamenti aggressivi risiede in alcune caratteristiche proprie dell’individuo, quali la provenienza da una famiglia in cui l’aggressività è uno stile relazionale diffuso o da un gruppo sociale in cui le modalità interattive sono estremamente violente.

Le cose però non sembrano essere così semplici e questo è dimostrato dalle varie ipotesi, che in campo filosofico sono state avanzate nel corso della storia dell’umanità, e dalle teorizzazioni psicologiche.

La cause

Nel corso del ventesimo secolo varie ipotesi sono state fatte in ambito psicologico riguardo alla genesi dell’aggressività (Palmonari, Cavazza e Rubini, 2012). Per Freud l’aggressività ha un’origine istintuale, legata all’istinto di morte che insieme all’istinto di vita coabita nello stesso individuo. Perché la persona possa conservare la propria integrità, l’aggressività deve essere indirizzata verso l’esterno, preferibilmente canalizzandola in attività socialmente accettate, come quelle che caratterizzano le rivalità fra i gruppi all’interno di un’organizzazione sociale.

Nell’ambito dell’aggressività umana, secondo Fromm, si possono distinguere una forma benigna, necessaria alla sopravvivenza dell’individuo in quanto permette di difendere la propria personalità e il proprio mondo, e una forma maligna, che determina la distruttività.

Secondo la teoria della frustrazione, elaborata da Dollard e Miller, alla base dell’aggressività c’è un meccanismo di frustrazione. L’individuo prova questa emozione quando trova degli ostacoli sul suo cammino che impediscono il raggiungimento degli obiettivi che si è fissato. L’aggressività subisce un incremento esponenziale in funzione dell’avvicinamento alla meta. In altre parole, quanto più l’individuo sta per raggiungere il suo obiettivo e viene interrotto in tale  proposito, tanto più aumenta la sua aggressività.

Solitamente questo stato emotivo viene orientato non verso le persone che hanno determinato la frustrazione, ma in direzione degli individui che per caratteristiche personali (maggiore debolezza e minore potere) si prestano facilmente a divenire oggetto dei comportamenti aggressivi.

Questa teoria è stata successivamente meglio delineata da Berkowitz, secondo cui la frustrazione determina una predisposizione all’aggressività, che si palesa in condotte violente laddove trova le condizioni favorevoli, che sono rappresentate da alcune variabili, quali:

  • un contesto di vita in cui predominano gli atteggiamenti aggressivi nelle interazioni sociali
  • una disposizione personale derivante dall’essere vissuto in un ambiente familiare, caratterizzato da stili relazionali aggressivi

Nell’ambito comportamentista si sostiene che il soggetto nel corso della sua storia apprende e consolida i comportamenti aggressivi nella misura in cui le conseguenze prodotte da tali condotte creano dei vantaggi. Quindi, laddove le conseguenze positive sono di gran lunga maggiori rispetto a quelle negative l’aggressività tende a rinforzarsi e a consolidarsi.

Un’altra concettualizzazione proposta nell’ambito della genesi dell’aggressività è la teoria dell’obbedienza (Patrizi e De Gregorio, 2009). In pratica, un individuo si comporta in maniera aggressiva e violenta, quando subisce l’influenza di una persona particolarmente aggressiva, a cui attribuisce alcune peculiarità, come il carisma, l’autorevolezza e la superiorità sociale.

Complementare a questo costrutto è la teoria della dell'individuazione. In questo caso più che una singola persona è un intero gruppo sociale, a cui l’individuo appartiene, che esercita una forma di influenza negativa. È l’appartenenza al gruppo che determina la deindividuazione, la quale consente al singolo di allentare l’autocontrollo, che altrimenti avrebbe esercitato se fosse stato da solo.

Un gruppo di ricercatori ha voluto studiare il cervello di centinaia di assassini condannati, soffermandosi sulle differenze significative di materia grigia tra i soggetti che avevano commesso omicidi e altri soggetti che avevano commesso crimini violenti. I risultati dello studio hanno evidenziato differenze significative a livello cerebrale tra i criminali che avevano commesso omicidi e gli altri due gruppi (criminali violenti e non violenti). È interessante notare che non ci sono state differenze significative tra il cervello dei criminali violenti e quelli non violenti.

Nello specifico, gli autori dello studio hanno scoperto che gli assassini, che avevano commesso omicidi, presentavano deficit significativi in diverse aree cerebrali: nella corteccia prefrontale ventrolaterale e dorsolaterale, nella corteccia prefrontale dorsomediale, nell’insula, nel cervelletto e nella corteccia cingolata posteriore.

Le riduzioni della materia grigia nel gruppo omicida erano evidenti, soprattutto in quelle aree cerebrali deputate all’elaborazione affettiva, alla cognizione sociale, al controllo comportamentale strategico, all’empatia, alla regolazione delle emozioni, al prendere decisioni morali e alla valutazione degli stati cognitivi degli altri.

Comportamento antisociale e devianza

Il comportamento antisociale, la devianza e la criminalità sono oggetto di riflessioni e studio fin dai tempi di Aristotele. La definizione di disturbo antisociale inizia ad essere delineata fin dai primi anni del XVIII secolo. Se ne interessano diversi studiosi che tentano di delineare le caratteristiche di personalità d’individui che ingaggiano comportamenti pericolosi, distruttivi e dannosi per la società (Bertozzi A, 2007).

Per molti autori da un punto di vista psicologico, lo sviluppo del disturbo della condotta e della devianza in genere ha insorgenza nell’infanzia e può essere riportato a disfunzioni del binomio genitore-figlio. Le caratteristiche genitoriali e dello stile familiare vengono interiorizzate, e trasformate in caratteristiche della personalità.

Kolbo, Blakely & Engleman (1996) (in Fornari, 2009) hanno mostrato che ambienti familiari antisociali hanno un effetto maggiore su:

  • il funzionamento emotivo e comportamentale
  • il funzionamento cognitivo
  • lo sviluppo a lungo termine.

Secondo gli autori, questi ambienti generano, come adulti, comportamento più aggressivo e antisociale. Sono individui che si mostrano sospettosi ed ostili, e che si sentono maltrattati o trattati ingiustamente. Essi hanno difficoltà di apprendimento dall’esperienza, come evidenziato dalla ripetizione del comportamento criminale, nonostante le sanzioni ricevute.

Bronfenbrenner (1987) (in Rudas 1997)  dimostra come “pesino” di più le condizioni socio-ambientali piuttosto che le caratteristiche di personalità nel comportamento criminale.

L'empatia

L’empatia consiste nella capacità di assumere la prospettiva altrui e quindi di comprendere quelli che possono essere i sentimenti di una persona in una certa situazione, e nella capacità di risuonare emotivamente, immedesimandosi nello stato emotivo dell’altro e rispecchiandone interiormente le emozioni.

Studi effettuati su campioni di sexual offenders hanno infatti dimostrato con particolare evidenza il fatto che la mancanza di empatia non risulti necessariamente un deficit generale ed esteso nei confronti di tutte le persone, ma che possa piuttosto verificarsi in maniera selettiva nei riguardi di una precisa vittima o di un gruppo.

Marshall e colleghi (1995) hanno infatti riscontrato in aggressori sessuali e in molestatori infantili deficit di empatia specificatamente circoscritti nei confronti rispettivamente di donne e di giovani ragazzi. A conferma di questa ipotesi, Fernandez e colleghi (1999) hanno testato un gruppo di soggetti pedofili resisi rei di molestie a danno di giovani vittime, attraverso l’uso di vignette raffiguranti tre diversi tipi di situazioni stressanti, in cui venivano coinvolti dei bambini: nel primo caso, il bambino protagonista dell’immagine risultava sfigurato a seguito di un grave incidente stradale; nel secondo caso, un bambino subiva molestie sessuali da parte di un estraneo ed infine, in una terza vignetta, veniva rappresentata la vittima stessa del soggetto testato. Una volta mostrate ai partecipanti tali vignette, veniva loro chiesto di scegliere lungo un elenco le emozioni attribuite ai bambini protagonisti di ciascuna immagine. In un secondo momento veniva poi chiesto di indicare nello stesso modo anche le emozioni da loro provate a fronte di ciascuna immagine.

Dai risultati sono emersi livelli empatici nella norma ed analoghi a quelli del gruppo di controllo nei confronti dei bambini sfigurati in incidenti stradali e punteggi solo leggermente più bassi durante l’osservazione delle vignette raffiguranti una generica violenza sessuale su minori. Significativamente, invece, tali livelli di empatia risultavano azzerarsi quasi completamente nel caso in cui l’immagine avesse per protagonista la loro stessa vittima.

I dati di questo studio hanno così confermato la presenza, in un campione di molestatori infantili, di una normale capacità di empatia nei confronti di bambini in generale, ma della possibilità di una sua inibizione selettiva nei confronti delle proprie vittime, ovvero in casi in cui determinati stimoli possano far prevalere la motivazione a subordinare il benessere altrui al prioritario soddisfacimento di piacere personale.

Anche Fernandez e Marshall (2003) hanno individuato analoghe soppressioni di empatia vittima-specifiche in molestatori autori di violenza su donne adulte. Analogamente ai risultati della ricerca precedente, anche in questo studio sono emersi livelli di empatia significativamente più bassi nei confronti di donne in cui i soggetti potevano riconoscere le loro stesse vittime, rispetto ai più alti punteggi di empatia emersi invece nei confronti di donne vittime di altri accadimenti violenti.

In considerazione degli analoghi risultati ottenuti da diversi altri studi (Farr et al., 2004; Fisher, 1997; Fisher et al., 1999; Marshall et al., 1997; Webster and Beech, 2000; Whitaker et al., 2006), si può quindi ritenere che tali dati forniscano sostegno alle più recenti ipotesi che fanno ritenere l’empatia come una risposta di stato volontaria, nonché suggeriscano degli elementi di maggiore comprensione clinica di alcune forme di comportamento deviante e di aggressività strumentale, come l’esito di una deliberata scelta di sospensione della risposta empatica in modo vittima-specifico, ossia nei riguardi di una precisa persona o gruppo di individui identificati come bersaglio della propria violenza.

Tra i bias più comuni nell’ambito delle condotte antisociali figurano soprattutto la dislocazione della responsabilità, attraverso la quale viene operato un processo di attribuzione causale delle responsabilità di un atto ad altre persone o alle circostanze, e la non considerazione o distorsione delle conseguenze, nella quale viene invece operata una minimizzazione o una selezione strumentale nella rappresentazione mentale delle conseguenze positive o negative di un’azione. Tali processi di distorsione cognitiva del contesto e della vittima possono così agire sinergicamente nel determinare un transitorio allentamento delle capacità empatiche ed una loro temporanea sospensione.

L’evitamento dello sguardo della vittima può rappresentare un modo per minimizzare volontariamente la percezione della sofferenza procuratale ed allontanare così la possibilità che eventuali accessi empatici di senso di colpa o di rimorso possano avere la meglio e trattenere il soggetto dal portare a termine i propri progetti.

Una serie di ricerche ha dimostrato infatti che la capacità di riconoscere le emozioni altrui è in genere pesantemente influenzata dal focus dell’attenzione e che, nello specifico, l’incapacità di provare empatia per i segnali di disagio espressi dalle vittime si normalizza nel caso in cui tali manifestazioni rientrino nel loro campo d'attenzione.

Queste ricerche suggeriscono dunque che la capacità di alcuni soggetti di agire in modo gravemente antisociale e lesivo del benessere altrui possa essere spiegabile come parte di una strategia tesa ad inibire l’attivazione di sentimenti prosociali e a poter mantenere un atteggiamento freddo, distaccato e aggressivo nei confronti dell’altro, senza essere in ciò disturbati da risonanze empatiche che potrebbero sorgere se l’attenzione dovesse soffermarsi sullo sguardo della vittima.

In conclusione, in base ai dati della ricerca emersi, la perpetrazione della violenza e di alcune forme di aggressività sembra essere sostenuta da soppressioni transitorie della sintonizzazione emotiva in modo vittima-specifico, attraverso un insieme di strategie cognitive ed attentive, volte a favorire tale distanziamento empatico.

Laureata in psicologia clinica dello sviluppo e neuropsicologia, si occupa di sostegno psicologico per individui, coppie e famiglie con particolare attenzione altro…