
Complessa ma promettente. Lontana ma raggiungibile. Se è vero tutto ciò che ti ho raccontato nella puntata precedente di questa rubrica, l’altra parola conficcatasi prepotentemente nella testa sarà «quando».
Quando arriverà la fusione nucleare? In confronto, la famosa domanda da un milione di dollari finisce per arrossire e trasformarsi in un indovinello da serata con gli amici al bar.
Provare oggi a domandarsi quando arriverà il giorno in cui sfrutteremo una centrale a fusione nucleare alla stregua di quanto già avviene con quelle a fissione (pensa alla vicina Francia) è estremamente complicato perché significa fare i conti con una frontiera scientifica e tecnologica di cui ancora non conosciamo nemmeno i confini.
Ad oggi, infatti, nessun esperimento è stato in grado di produrre più energia da fusione di quanta non ne sia stata utilizzata per accendere l’esperimento stesso. Non siamo stati ancora capaci, insomma, di sfruttare la fusione per alimentare in maniera sostenibile ed efficiente un altro dispositivo.
Il risultato ottenuto al NIF di Livermore nel dicembre del 2022, basato sul confinamento inerziale, ci ha portati un po’ più vicini al successo e per questo è stato annunciato e celebrato come un traguardo storico, eppure si tratta di un risultato parziale.
L’entusiasmo attorno alla notizia andava e va limitato e soprattutto contestualizzato perché se è vero che per la prima volta nella storia siamo riusciti ad accendere una reazione di fusione per il tempo necessario perché potessimo generare più energia di quella utilizzata per innescarla altrettanto vero che se si considera tutta la filiera di produzione energetica servita per avviare l’intero l’esperimento, quello ottenuto non può essere considerato un guadagno positivo.
Anzi, è rimasto in negativo. Con una buona dose di semplificazione, potremmo dire che è come se per ottenere una un’energia di 3MJ fosse stata utilizzata un’energia di 300MJ.
Quello ottenuto negli Stati Uniti nel dicembre del 2022 e replicato poi nell’estate del 2023 resta comunque un grosso successo dal punto di vista scientifico.
Grazie ad esso oggi sappiamo di essere potenzialmente capaci di accendere una reazione di fusione in maniera controllata, fare in modo che si autosostenga (è la cosiddetta «ignizione») e sfruttarla per generare dell’energia e alimentare un altro sistema (la prima volta, al Nif, l’energia prodotta bastava per scaldare una teiera).
Nemmeno con il confinamento magnetico, l’altro approccio tecnologico pensato per accendere una reazione di fusione e considerato il più promettente tra i due, abbiamo raggiunto il «guadagno netto». Ci siamo andati vicini però.
Il Joint European Torus (o Jet), oggi il Tokamak funzionante più grande e potente al mondo, ha centrato diversi «record» in questo senso.
Nel 1997 aveva generato 22 Mega Joule da reazioni di fusione, con 16 MegaWatt di potenza di picco per 0.15 secondi, migliorandosi poi nel 2022 con 59 MJ prodotti e mantenuti per 5 secondi. Sempre, però, senza un totale successo. Per ora.
“La fusione nucleare è qualcosa che l’Umanità sta rincorrendo da diversi decenni, ci stiamo lavorando con grande intensità e l’incremento oggi è apprezzabile – ha raccontato nel corso delle nostre chiacchierate sul tema il dottor Matteo Iafrati, ricercatore dell’Enea – Il mondo sta facendo dei passi in avanti ma siamo ancora lontani dal poter attaccare una centrale a fusione alla rete elettrica”.
Ad ogni modo, questi risultati sono stati dei piccoli-grandi successi scientifici che hanno contribuito alla recente attenzione sulla fusione, accendendo riflessioni sul suo potenziale ruolo nella transizione energetica e allo stesso tempo una certa voglia di futuro: lo stesso che questa tecnologia promette di regalarci.
Se vuoi vedere la conquista della fusione nucleare come una strada di montagna in salita, piena di curve con scarsa visibilità, il progetto Iter oggi è ritenuto dalla comunità scientifica il mezzo migliore per affrontarla e raggiungerne la cima.
Facciamo chiarezza: Iter non sarà la soluzione a tutti i problemi, la risposta alla domanda che guida queste righe, ai sogni di gran parte della comunità scientifica e della popolazione.
Iter non è pensato per produrre energia e immetterla in rete, toccherà al progetto successivo, ribattezzato Demo, dimostrare che una centrale è in grado di consegnare energia sfruttabile.
“Iter ha l’obiettivo di dimostrare di poter produrre 500 Megawatt termici di potenza da fusione ma non quello di convertire questa potenza in elettricità” ha precisato Iafrati. Iter ha «solamente» il compito di dimostrare che è fattibile utilizzare la fusione in ambito civile. Vuole testimoniare che gli sforzi tecnologici possono essere coniugati in un’unica realizzazione.
“Iter deve dimostrare che si può costruire un’unica macchina in grado di lavorare a tutti questi margini tecnologici contemporaneamente e fare fusione generando energia e funzionando quasi in stazionario, cioè per tempi compatibili con quelle che sono le necessità della rete elettrica”. Demo invece sarà una vera e propria centrale.
Dovrà quindi trasformare la teoria in pratica, consegnando alla rete 1 Gigawatt di potenza elettrica. Si tratta, ha spiegato Iafrati, della taglia di potenza di una centrale importante, che tiene in piedi una buona fetta di una grande città o un insieme di paesi, dalle fabbriche alle case private.
Il «quando» è una delle prime domande che abbiamo posto al ricercatore dell’Enea nel corso delle nostre chiacchierate ma la risposta univoca, quella con un numero per intenderci, non ce l’ha data. È impossibile, oggi, stabilirlo con esattezza.
Ci sono tantissime variabili da considerare, troppe incognite e svariate tecnologie ancora da scoprire. “Chiunque lavori nel settore fusionistico auspica che si possa arrivare al risultato con tempi brevi ma purtroppo non sarà così: la comunità scientifica non si aspetta di consegnare energia da fusione in rete prima della seconda metà di questo secolo”.
Queste previsioni tuttavia rischiano di luttare ancora un poi più in là nel tempo. Secondo un articolo di Scientific American riportato da Le Scienze, infatti, il progetto sarebbe colpiti da «ritardi da record» – connessi alla pandemia di Covid-19, a rallentamenti nella consegna di alcuni componenti, a difetti insorti in alcuni macchinari e più ingenerale alla complessità della sfida tecnologica – che avrebbero inevitabilmente rimandato la sua entrata in funzione e aumentato ancora i costi, oggi già abbondantemente sopra i 20 miliardi di euro.
Riflettendo su dove siamo e come potremmo eventualmente (un margine di incertezza va lasciato) sfruttare la fusione, è interessante ragionare anche sulla natura dell’energia che Demo – o comunque la fusione in generale – potrebbe consegnare.
La ricerca in ambito di fusione prese concretamente avvio dopo lo scoppio delle due bombe atomiche sul Giappone, in un contesto geopolitico estremamente complesso.
La Guerra Fredda aveva già diviso la scacchiera del mondo e ovunque si respirava aria di segreti e tensioni, paura e silenzi. Ogni angolo di sapere era un possibile terreno di scontro, tranne la scienza.
Tra il 1955 e il 1957, durante la Conferenza per l’utilizzo pacifico dell’energia atomica, l’Unione Sovietica scelse di condividere il proprio know-how teorico e tecnologico sulla fusione nucleare. Aprì le proprie porte al «nemico» e abbatté il muro della segretezza e del sospetto.
La fusione nucleare rappresentò quindi un tentativo di distensione, l’emblema della collaborazione e della condivisione della conoscenza. La ricerca sull’energia delle stelle che alimenta sogni e dibattiti affonda dunque le proprie radici in un contesto scientifico-politico-culturale democratico e universale passato che perdura tutt’oggi.
Iter, infatti, nacque dalle ceneri dell’International Tokamak Reactor (o INTOR), il primo progetto di fusione nucleare (1978) condiviso tra Unione Sovietica, Comunità Europea, Stati Uniti e Giappone e ancora oggi vive in un contesto geopoliticamente affascinante.
“A Iter collaborano 7 macro paesi, di cui uno è l’Europa e un altro sono gli Stati Uniti. Se andiamo a misurare in termini di abitanti, stiamo parlando di una fetta enorme del PIL globale”. La partecipazione globale alla sua realizzazione garantisce l’accesso ai dati, alla conoscenza e ai successi di Iter a tutti i paesi coinvolti. “Possiamo vederlo insomma come un esperimento geopolitico nell’esperimento scientifico, un tentativo di costruzione di un qualcosa che è alla portata di molti e non di pochi” ha concluso Iafrati.
Ciò significa che quando la otterremo, la fusione non sarà dunque un risultato francese o europeo, sarà un risultato mondiale. E l’energia che la fusione promette di garantirci non sarà di un singolo paese o di una fetta di mondo: sarà di tutti e per tutti.