
Francesco Messori, classe '98, nasce senza una gamba, ma con una grandissima passione per il calcio. Durante la sua infanzia Francesco usa una protesi, senza tuttavia mai sentirsi a proprio agio. Si sente in gabbia, anche quando gioca a calcio nel ruolo di portiere. Fino al momento in cui decide di abbandonare la protesi e usare solo le stampelle. Non abbandona però il suo sport preferito, cambia ruolo e diventa attaccante, correndo sempre fianco, fianco con chi di gambe ne ha due.
Oggi Francesco è il primo disabile in Italia a giocare a calcio con i normodotati, oltre a essere il fondatore e il capitano della Nazionale Italiana di Calcio Amputati. La sua determinazione ha portato nel 2019 all'organizzazione del primo Campionato Italiano di Calcio Amputati, disputato oggi da quattro squadre.
Francesco porta la sua storia nelle scuole, e non solo, per far capire quanto lo sport sia fondamentale per affrontare le proprie difficoltà. Lui ne è un bellissimo esempio.
Credo per una passione innata che ho fin dall'infanzia. Mia madre mi ha sempre detto che fin da piccolo, la mia attenzione era catturata sempre dal pallone. Così ho deciso di coltivare questa passione già a partire dai sette anni.
Ho iniziato a giocare a calcio con i normodotati: giocavo in porta e indossavo la protesi. Qualche anno dopo ho deciso di non usarla più e da quel momento è iniziata la mia vita con le stampelle. Avevo dieci, undici anni, e ho abbandonato il ruolo del portiere per fare l'attaccante.
La scelta di abbandonare la protesi deriva dalla mia natura: dico sempre che sono nato senza una gamba, la mia natura è sempre stata questa e quindi non sentivo bisogno di qualcosa che mi aiutasse a vivere meglio. La protesi mi creava solo problemi perché ero costretto a legarla al busto, per me non era comoda.
Con i normodotati ero oggettivamente svantaggiato. Non è stato sempre facile integrarmi bene, più che altro per una questione di fiducia a livello sportivo degli altri atleti nei miei confronti; il fatto è che vedendoti senza una gamba, sei quasi automaticamente la seconda scelta. Devo però dire che poi le persone hanno iniziato a conoscermi e a considerarmi alla pari di un normodotato. Oggi chi mi conosce sa che, nonostante abbia solo una gamba, sono in grado di giocare a calcio.
Ho deciso con mia madre di aprire un gruppo su Facebook dove ho pubblicato il post in cui raccontavo il sogno di reclutare ragazzi amputati da tutta Italia che avessero non solo la mia disabilità, ma soprattutto la mia stessa passione per il calcio.
Nel frattempo sono stato tesserato dal CSI per poter giocare con le stampelle le partite ufficiali con atleti normodotati. Questo ha parzialmente cambiato i piani rispetto a quello che volevo realizzare, ma mi ha comunque aiutato a promuoverlo. Il mio desiderio è sempre stato quello di confrontarmi alla pari. Piano, piano abbiamo iniziato a ricevere richieste da ragazzi amputati sparsi per l'Italia e tutti appassionati di calcio.
Nel giugno 2012 siamo riusciti ad organizzare il primo torneo di calcio integrato, “Un calcio a modo mio”, con i primi sei atleti amputati. È stato organizzato da me e da mia madre, ma anche da tutti quelli che ci hanno dato una mano a realizzarlo a Correggio; poi lo abbiamo riproposto anche a settembre ed eravamo già un po' di più.
Questa testimonianza è un'esperienza di vita quotidiana, ma anche di vita sportiva, che ha lo scopo di far capire quanto lo sport sia importante, se non fondamentale, per poter affrontare le proprie difficoltà. Dico spesso ai ragazzi che incontro che lo sport è l’unico mezzo con cui è possibile riuscire ad abbattere i pregiudizi, almeno nel mio caso è stato cosi. Nel mondo dello sport nessuno ti guarda per quello che ti manca. Se sei sul campo di calcio, significa che sei in grado di giocare. Perché lo sport ti fa fare quello che più ti appassiona con quello che hai e anche un tuo punto apparentemente debole può diventare un punto di forza.
Indirettamente, sì. Sul campo di calcio mi sono sentito discriminato per l'atteggiamento da parte di alcuni avversari, ma solo per il fatto che chi non mi conosceva, magari mi lasciava giocare la palla tranquillamente senza tentare di togliermela. Questo in qualche modo mi sminuiva.
Il libro mi è stato proposto dalla casa editrice, non è stata una mia idea, ma quando si sono mostrati interessati alla mia storia, sono stato contento di lavorarci con Elena Becchi, coautrice del libro ("Mi chiamano Messi", Editore Alibenti).
Nel libro ripercorro la mia vita, ci sono numerosi flashback che raccontano le mie amicizie. Quando ero molto piccolo ricordo, per esempio, quanto i bambini fossero curiosi di vedere e toccare la protesi e ricordo anche di come mi mettesse in soggezione camminare, a volte zoppicare, in mezzo agli altri. Anche da questo è arrivata la decisione di abbandonare la protesi e usare solo le stampelle, per sentirmi più libero.