Hate speech, non solo il caso dello stupro di Palermo: perché sul web l’odio colpisce la vittima

Dopo la violenza fisica, la 19enne vittima dello stupro di Palermo ha dovuto subire le offese e gli attacchi di migliaia di utenti sui social, che, nascosti dallo schermo di uno smartphone, l’hanno accusata di “essersela cercata”. Si chiama “hate speech” e quasi sempre le vittime predilette sono proprio coloro che hanno già subito una forma di vessazione o di discriminazione. Ne abbiamo parlato con un esperto di salute mentale per indagare le cause e gli effetti sul benessere psicologico delle vittime, ma anche per imparare a tutelarci.
Entra nel nuovo canale WhatsApp di Ohga
Maria Teresa Gasbarrone 31 Agosto 2023
Intervista a Dott. Giuseppe Lavenia Psicoterapeuta e presidente dell'Associazione Di.Te (Dipendenze tecnologiche e cyberbullismo)

"Sono stanca. Mi state portando alla morte. Io stessa anche senza questi commenti non ce la faccio più". Queste parole le ha scritte dal suo account social la ragazza 19enne vittima dello stupro di Palermo.

Sofferenza dopo sofferenza. Violenza dopo violenza. Non ha fine il suo incubo: dopo essere stata ingannata, abusata e violentata, la 19enne stuprata nella notte tra il 6 e il 7 luglio da un gruppo di sette ragazzi – tra i quali c'era anche un suo amico – ha dovuto subire una nuova forma di violenza. Questa volta però a metterla in atto sono stati migliaia e migliaia di utenti, che, protetti dallo schermo di uno smartphone o di un pc, l'hanno giudica, accusata e incolpata. Sì, incolpata, di "essersela cercata" in qualche modo.

"Ve lo dico in francese, mi avete rotto…con cose del tipo ah ma fa i video su Tik tok con delle canzoni oscene è normale che poi le succede questo", aveva scritto già qualche giorno fa la ragazza, reagendo per la prima volta pubblicamente alla pioggia di insulti ricevuti online da quando è diventata di dominio pubblico la notizia dello stupro subito.

Cos'è l'hate speech?

In termini tecnici si chiama "Hate speech" – ovvero "discorso di odio" – e consiste nell'attaccare con offese e insulti un soggetto, o una categoria, tramite le piattaforme web, in primis i social.

Si tratta di una forma di comunicazione che si realizza solo online ed è caratterizzata da tratti di aggressività che raramente si ritrovano nel mondo offline. A rendere possibile ciò è proprio l'esistenza del filtro dato dallo smartphone, che dà l'illusione di essere meno esposti, meno responsabili di quello che si dice.

"L'hate speech – spiega lo psicoterapeuta Giuseppe Lavenia, presidente dell'Associazione Di.Te (Dipendenze tecnologiche e cyberbullismo) – può essere considerato una forma di bullismo, anche detto "cyberbullismo" in quanto avviene online. Si tratta di un comportamento aggressivo, intenzionale e ripetitivo che può avere effetti dannosi per la vittima. Tra i giovani, l'uso dell'hate speech è spesso associato all'anonimato che le piattaforme online possono offrire, rendendo più facile per gli autori evitare le conseguenze immediate delle loro azioni".

Perché il bersaglio sono le vittime

Molto meno facile da comprendere è perché quest'odio è quasi sempre rivolto contro le vittime piuttosto che contro i "carnefici". Il caso della ragazza di Palermo è emblematico.

Ma non è la prima volta che chi subisce una forma di violenza, fisica o mentale, ma anche una forma di discriminazione, di ogni genere, dopo la violenza nel mondo "reale", ne subisce un'altra nella realtà digitale. D'altronde, ha questa distinzione ha ancora senso? La violenza è violenza sempre. "Siamo in un momento storico in cui l'identità fisica e quella digitale – spiega Lavenia – sono ormai la stessa cosa".

Secondo la mappa realizzata annualmente dall'Osservatorio dei Diritti, i picchi di odio si verificano in occasione di eventi di cronaca drammatici, proprio contro la categoria colpita. Per esempio, l'hate speech contro le donne tende ad aumentare subito dopo episodi di femminicidio. Perché succede?

"Il fenomeno di accanimento verso le vittime di violenza, in particolare di violenza di genere, – aggiunge Lavenia – è un problema complesso che può avere molteplici cause".

Anonimato e pregiudizi

Una prima spiegazione potrebbe risiedere nei pregiudizi di genere e stereotipi sociali che spesso permeano la nostra società. "Questi pregiudizi possono portare alla cosiddetta "colpevolizzazione della vittima", dove si attribuisce alla vittima stessa la responsabilità dell'atto violento subito", spiega Lavenia.

Un altro fattore da non sottovalutare è proprio la necessità – forse anche inconscia – di ristabilire lo stato delle cose: "La polarizzazione e l'anonimato online possono intensificare atteggiamenti di odio e discriminazione. L'hate speech in concomitanza con eventi di cronaca potrebbe anche essere un modo attraverso cui si cerca di riaffermare certi ruoli e stereotipi di genere, mantenendo così una sorta di "ordine" sociale percepito".

La "disinibizione" permessa dall'online è un altro fattore chiave. Ne è prova il fatto che l'hate speech non riguarda solo i giovani, ma anche gli adulti: "L'ambiente digitale – prosegue l'esperto – fornisce una separazione dal contesto sociale e dalle conseguenze immediate, permettendo alle persone di dire cose che non direbbero mai faccia a faccia. Anche la percezione di un pubblico "silente" o "approvatore" può amplificare questi comportamenti".

Gli effetti dell'hate speech sulla salute

Proprio come il bullismo, anche l'hate speech – e in genere qualsiasi forma di cyberbullismo – crea nella vittima uno stato di angoscia e sofferenza, nonché una serie di effetti negativi sulla sua salute mentale, alcuni anche gravi e duraturi.

Tra questi ci sono stress, ansia, depressione, e nei casi più gravi, perfino i sintomi tipici del disturbo post-traumatico da stress (PTSD).

Per difendersi, la vittima di hate speech può agire su due strade. "Da una parte – conclude lo psicoterapeuta – la segnalazione e il blocco degli aggressori online sono azioni pratiche che possono aiutare, dall'altra, però resta fondamentale chiedere aiuto, rivolgendosi a un professionista della salute mentale che è in grado di gestire l'impatto emotivo della violenza subita".

Fonte | Osservatorio Diritti