Il mondiale di rugby di Nelson Mandela, che nella palla ovale trovò la rinascita del suo Sudafrica

Il 24 giugno del 1995, allo stadio Ellis Park di Johannesburg, la nazionale di rugby del Sudafrica affrontò e sconfisse la Nuova Zelanda nella finale del campionato del Mondo. Non fu solo una partita tra due squadre rivali: la vittoria sportiva fu il primo simbolico passo verso uno stato unito e coeso dopo che l’assurdità dell’apartheid aveva diviso le sue due anime, bianchi e neri.
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Rubrica a cura di Kevin Ben Alì Zinati
9 Ottobre 2020

C’è un treno che corre su due binari d’acciaio. Il viaggio non è ancora terminato e anche sporgendosi dal finestrino, alcuni passeggeri non vedono l’arrivo, non sanno come sarà la stazione finale ma hanno la sensazione che non gli piacerà. Trainati dalla locomotiva lungo due binari diritti che bucano l’orizzonte, devono sperare che lo scambio sia attivo, funzioni e che ad un certo punto devii l’intero convoglio da un binario all’altro, facendogli cambiare direzione.

Per una parte del mondo, quello cambio fu lo stadio Ellis Park di Johannesburg, che si attivò il 24 giugno del 1995 portando il Sudafrica verso un’idea di Stato più unita e coesa. E restando all’intento dei contorni della metafora, se il treno fu il rugby e la finale del campionato del Mondo che si giocò appunto in Sudafrica, il capotreno che cambiò la destinazione del viaggio fu Nelson Mandela.

Alta tensione

Il campionato del mondo non arrivava in un periodo facile, anzi. L’apartheid era stato abolito solo tre anni prima e Mandela, dopo i 27 anni di prigione per reati di sabotaggio e cospirazione contro il suo Paese, era stato liberato ed eletto presidente ma gli strascichi degli ultimi 42 anni di razzismo e segregazioneterrore e discriminazione avevano lasciato la minoranza bianca (i cosiddetti “afrikaner”) e i neri imprigionati in una tensione sociale altissima. Era inevitabile dopo che cinque milioni di bianchi avevano deciso di espropriare, con la violenza, tutto ciò che fosse appartenuto agli altre venti milioni di neri (terre, ricchezze o possedimenti) e dopo che, al pari delle nostre leggi razziali, alle persone di colore erano stati vietati i cinema, i locali, le attività, la libertà.

La palla ovale

Mandela era un grande appassionato di sport, soprattutto di quelli di squadra, dove un gruppo di uomini si riconosce sotto l’idea di uno stemma, di una bandiera e di un obiettivo e insieme gioca – lotta – per raggiungerlo. Il rugby entrò nella sua vita per caso. Durante gli anni di prigionia, Mandela strinse amicizia con un secondino della prigione: più che un amico, però, l’uomo bianco era diventato l’unica speranza per Madiba di ottenere un fornelletto da cucina con cui potersi scaldare e cucinare da mangiare all’interno dei 6 metri della sua cella. Il secondino era un amante della palla ovale così Mandela cominciò a leggere e studiare gli articoli dei giornali sportivi convinto che, condividendo una passione, avrebbe ottenuto il fornelletto.

In Sudafrica l'apartheid aveva lasciato 42 di anni di razzismo e segregazione, terrore e discriminazione

La tensione sociale aveva valicato anche i cancelli dello sport e aveva invaso anche i terreni di gioco. Il rugby, per il Sudafrica, era infatti il simbolo della minoranza bianca e praticamente tutti i giocatori erano afrikaner, supporrthtati da un pubblico che durante le partite non faceva mai mancare striscioni e cori razzisti contro i pochi giocatori neri. E l’80% della popolazione sudafricana, che aveva la pelle nera, tifava ovviamente contro la propria nazionale.

Lo scambio

Mandela fu rilasciato nel 1990 e nel 1994 venne eletto presidente del suo Paese, quando poi un anno dopo arrivò l’occasione per il Sudafrica di ospitare il campionato del mondo dello “sport dei bianchi”, Mandela si convinse e ottenne l’assegnazione. Nella sua testa aveva ormai preso forma la convinzione che il rugby avrebbe potuto diventare lo strumento di unione e coesione sociale e culturale per le due anime del suo Sudafrica. Così incontrò il capitano della nazionale di rugby, Jacobus Francois Pienaar e gli rivelò il sogno di un paese unificato grazie allo sport, chiedendogli di ispirare lui, un bianco, tutto il popolo, per la maggior parte nero.

Nel frattempo, prima che il mondiale andasse in scena, vennero organizzati allenamenti aperti al pubblico e altri eventi pubblici per tentare di avvicinare la squadra alla popolazione e viceversa. Poi il torneo iniziò e gli Springboks, la nazionale sudafricana, inanellò una vittoria dietro l’altra battendo prima l’Australia, poi la Romania e il Canada, quindi eliminò le Samoa e la Francia, per arrivare a quel fatidico 24 giugno a giocarsi la finale con la Nuova Zelanda.

Joost van der Westhuizen (a sinistra) del Sudafrica, in azione durante la partita contro l’Australia del 25 maggio. Fonte: Getty Images.

Mandela era sugli spalti, Jacobus in campo, attorno a loro il Sudafrica e nella palla ovale la chance per un mondo nuovo. Contro i più forti, gli Spingboks tennero duro e dopo il 9-9 del secondo tempo anche ai supplementari la storia non cambia e si arriva fino al 12 pari. È qui però che il treno prese lo scambio: il sudafricano Joel Stransky spedì la palla in mezzo ai pali e sopra della traversa, un drop goal da oltre una trentina di metri.

Fu così che il Sudafrica divenne campione: le mani di Pienaar, trionfante al centro del campo, ricevettero la coppa dalle mani bianchi del presidente Nelson Mandela. La loro stretta di mano fu il simbolico inizio della riconciliazione di un Paese. Quella partita di rugby idealmente segnò il cambio di direzione, il cambio di passa di una nazione e del mondo, verso un nuovo Sudafrica. Di lì a poco, infatti, venne istituita la Commissione per la Verità e la Riconciliazione, un organismo voluto dallo stesso Mandela per rendere pubbliche le violazioni dei diritti umani dell’apartheid. Mentre il mondo cambiava, Madiba lasciò queste parole:

“Lo sport ha il potere di cambiare il mondo. Ha il potere di suscitare emozioni. Ha il potere di unire le persone come poche altre cose al mondo. Parla ai giovani in un linguaggio che capiscono. Lo sport può creare speranza, dove prima c'era solo disperazione. È più potente di qualunque governo nel rompere le barriere razziali. Lo sport ride in faccia ad ogni tipo di discriminazione”.

La vittoria sul campo aveva invaso il Sudafrica. E il mondo.

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Giornalista fin dalla prima volta che ho dovuto rispondere alla domanda “Cosa vuoi fare da grande”. Sulla carta, sono pubblicista dal altro…