Abbassare lo sguardo, a volte, è più coraggioso che sfidare il nemico dritto negli occhi: l’ha insegnato Vera Caslavska

Durante le Olimpiadi di Città del Messico 1968, la ginnasta cecoslovacca fu premiata vincitrice nel corpo libero a pari merito con un’atleta russa. La decisione fu però il risultato della pressione sui giudici da parte dei sovietici, che nei mesi precedenti avevano invaso la Cecoslovacchia. Così durante la cerimonia, Vera Caslavska si rifiutò di degnare del proprio sguardo la bandiera con la falce e il martello e la sua protesta silenziosa fece il giro del mondo.
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Rubrica a cura di Kevin Ben Alì Zinati
4 Dicembre 2020

I coraggiosi sono coloro che guardano il pericolo dritto negli occhi, che hanno il fegato di sfidare l’avversario e di dimostrargli di non aver paura e di non temere la lotta. Abbassare lo sguardo e quindi la testa, distogliere l’attenzione da ciò che tutti gli altri stanno ammirando, contemplando o quasi venerando – per amore o per paura – a volte, però, è ancora più coraggioso. L’hanno insegnato la ginnasta cecoslovacca Vera Caslavska e la sua protesta urlata silenziosamente. Capo chinato e sguardo lontano dalla bandiera sovietica, Vera trasformò una posa di sconfitta nel colpo più duro, nella freccia che trafisse la spessa e fredda armatura dentro cui si barricano tirannia e oppressione.

Il palcoscenico fu ancora il podio delle Olimpiadi di Città del Messico 1968, lo stesso dove già due signori dalla pelle scura e con un pugno guantato di nero alzato al cielo avevano battuto la discriminazione e l’intolleranza del mondo facendo dello sport il megafono dell’umanità. Vera, a quei Giochi, vinse tutto. Fu oro nel volteggio e nelle parallele, alla trave una serie di giudizi ambigui e oscuri la relegò seconda alle spalle di un’atleta russa ma arrivò davanti a tutti nella gara più importante, il corpo libero. Insomma, Vera bissò la clamorosa prestazione di quattro anni prima, quando alle Olimpiadi di Tokyo si era portata a casa tre ori e un argento nel concorso a squadre. E pensare che in Messico l’atleta cecoslovacca rischiò di non arrivarci.

Poco prima che i Giochi prendessero avvio, i Paesi del Patto di Varsavia invasero la Cecoslovacchia. Il Patto di Varsavia fu un'alleanza militare tra gli Stati socialisti del Blocco orientale nata per contrastare la Nato. Nell'agosto di quell’anno truppe del Patto, per la maggior parte sovietiche, entrarono a macchia d’olio nel paese di Vera per fermare la cosiddetta Primavera di Praga, il movimento che dopo la Seconda Guerra Mondiale cercava di liberare il paese dal controllo imposto dall’Unione Sovietica.

L’intento era chiaro: tutto ciò che poteva minacciare il socialismo doveva essere eradicato. Vera Caslavska amava il suo paese e non aveva alcuna intenzione di piegarsi agli oppressori sovietici, per questo aveva aderito alle riforme liberali firmando il manifesto anticomunista. Quando però i sovietici entrarono in Cecoslovacchia, non ci fu altro da fare: Vera dovette fuggire.

Si rifugiò tra le campagna della Moravia, dove continuò comunque ad allenarsi. Sollevava pesanti sacchi di patate, faceva acrobazie appesa ai tronchi degli alberi e induriva le mani spalando carbone: le altre atlete, soprattutto quelle sovietiche, erano invece già dall’altra parte del mondo, a prendere confidenza con il clima e l’atmosfera dei Giochi. Ma un conto è la politica, un altro invece è lo sport, che non poteva e non voleva deludere i cecoslovacchi e i tifosi di tutto il mondo. La campionessa, la più forte di tutte, la regina non può non essere della partita. Così, in quelle sperdute campagne, Vera ricevette il biglietto per le Olimpiadi.

Qualcosa, però, andò storto. Sì, perché Vera vinse nelle parallele e nel volteggio, ma quando fu il momento della trave i giudici fecero un po' quel che vollero e misero l’oro al collo di un’atleta russa. Nessun problema, pensò probabilmente Vera, ora c’è il corpo libero, è il mio mondo. Ma la lunga mano nemica arrivò fin dentro casa sua. Accade una cosa mai vista prima ai Giochi Olimpici: i giudici modificarono il voto delle qualificazioni della seconda atleta classificata, Larisa Petrik, una sovietica, che alla fine si ritrovò sul podio più alto a pari merito con Vera Caslavska, la regina.

Il furto era stato compiuto, l’umiliazione servita davanti agli occhi del mondo. In cima a quel podio non avevano perso solo Vera Caslavska e la Cecoslovacchia ma tutti coloro che si opponevano ai poteri forti. O quasi.

Lì, sul podio, spalla contro spalla con Larisa Petrik, Vera sentì risuonare gli inni nazionali e vide la sua bandiera sorgere insieme alla falce e al martello sovietici. Non ce la fece, anzi sì e fece la cosa più spontanea e più forte che potesse fare. Distolse lo sguardo. Chinò la testa e rifiutò di orientare i suoi occhi verso l’emblema degli invasori del suo paese. No, non fu un gesto di sconfitta. Anche se finì sotto indagine, se fu costretta a scusarsi – gesto che non fece mai – anche se finì per abbandonare la ginnastica e vivere una vita nell'anonimato, Vera non fu sconfitta.

Divenne il simbolo del dissenso e della protesta elegante, composta e muta contro l’oppressione. Sarà per sempre la cristallizzazione del coraggio di un popolo che lotta per la libertà e l'ispirazione per chi di fronte al nemico si piega, ma non si piega.

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Giornalista fin dalla prima volta che ho dovuto rispondere alla domanda “Cosa vuoi fare da grande”. Sulla carta, sono pubblicista dal altro…