Il nostro nuovo Piano pandemico è quasi pronto: manca il via libera da parte del ministro della Salute Orazio Schillaci, la revisione della Conferenza Stato-Regioni e poi finalmente anche l’Italia potrà fare compagnia a gran parte del mondo nel futuro della gestione delle emergenze sanitarie.
Nel Piano per il prossimo triennio saranno contenute le strategie da mettere in campo in caso di una nuova pandemia diffusa a livello mondiale, proprio come accaduto a marzo 2020 con Sars-CoV-2. Il precedente – pensato per il triennio 2021-2023 – era stato approvato solo a gennaio 2021.
Che cosa ci sarà di preciso in questo documento ancora non lo sappiamo. Nascendo però a debita distanza dalla fine dello stato di emergenza e dalla caduta di tutte le restrizioni anti-Covid, è ottimistico pensare che il nuovo Piano sarà figlio del suo tempo e che il nostro paese avrà fatto tesoro delle lezioni imparate con il virus.
Noi lo speriamo, anzi, ci spingiamo un po’ più in là: siamo convinti sarà così. Mentre aspettiamo, però, abbiamo provato a riflettere su cosa vorremmo leggere dentro questo documento.
Avendo avuto l’onere – e l’onore giornalistico – di raccontare da dentro questi tre anni di storia dell’uomo, ci siamo fatti un’idea piuttosto chiara di cosa è mancato e invece sarebbe fortemente servito in quei mesi di dubbio e paura, silenzio e sconforto, incomprensione, rabbia e frustrazione.
Di sicuro non vorremo più essere presi di sorpresa. Che un virus sconosciuto potesse sgusciare fuori da un “wet market” della Cina meridionale dando origine a una pandemia lo sapevamo. Ricordi, per esempio, cosa scrisse David Quammen?
Se nel 2012 avessi aperto il suo “Spillover” a pagina 45 avresti trovato la sua previsione un’esagerazione complottista: dopo l’arrivo di Sars-CoV-2 avrai visto Quammen come un indovino a cui dare più fiducia che a uno scienziato.
Non che Quammen non la meriti, sia chiaro: si tratta di uno dei più rinomati e autorevoli saggisti e divulgatori scientifici. Il punto, però, è che il piano pandemico non può prescindere da una bidona dose di alfabetizzazione scientifica e sanitaria della nostra classe dirigente, quanto basta almeno per non prendere epidemiologi, virologi, infettivologi come allarmisti se parlano di un rischio reale e concreto. Ebola, HIV, influenza suina sono esempi che abbiamo sotto gli occhi da “sempre” che tutti devono conoscere.
Nel nuovo documento diamo per scontato che vi sarà l’idea di rafforzare una repentina risposta da parte di ogni reparto del sistema sanitario in caso di emergenza.
Non deve succedere che la pandemia faccia implodere i sistemi ospedalieri e i reparti di terapia intensiva e nemmeno che metta in ginocchio la sanità territoriale, primo appiglio per una popolazione spaventata.
Il sistema sanitario di sorveglianza epidemiologica dovrà essere fortificato con le più avanzate tecnologie esistenti per il tracciamento dei casi e la gestione dei focolai.
Non dovranno mancare scorte abbondanti e adeguate di dispositivi di protezione individuale e materiali anti-infezione di facile accesso (magari di fabbricazione interna, in modo da evitare perdite di tempo legate alla burocrazia congestionata dall’emergenza e da generare quel lavoro che tanto servirebbe).
C’è una parola, poi, che nel nuovo piano pandemico vogliamo leggere a caratteri cubitali: comunicazione. Il lato comunicativo è stata la falla di gran parte della gestione della pandemia con informazioni parziali, forzate, a volte sbagliate e a volte assenti, confuse e confusionarie.
Ci piacerebbe vedere nel documento la nascita di un organo governativo per la comunicazione istituzionale in tempi di pandemia. Un gruppo di esperti scientifici, medici, comunicatori, giornalisti, divulgatori, policy makers che siano in grado di dare voce al Governo impostando una comunicazione efficace, empatica e non polarizzante.
Una comunicazione equilibrata, sana, appropriata e corretta, fatta di coerenza dei messaggi e diffusa attraverso strumenti idonei e capillari.
Comunicare medicina, malattie e salute è un compito estremamente complicato che mai deve negare il rischio. Non deve mai nemmeno minimizzarlo o massimizzarlo per cercare di innescare un senso di responsabilità sociale.
Alla lunga una simile strategia può portare all’obiettivo ma a un prezzo ancora più alto. Alla lunga una comunicazione così delicata e pericolosa rischia di creare allarmismo e divisioni, linfa vitale per il popolo dei no-vax.
Serve un dialogo diverso con la popolazione, che coinvolga, responsabilizzi, favorisca un certo grado di alfabetizzazione sanitaria anche per il cittadino e crei una fiducia nelle istituzioni. Sentimento, quest’ultimo, che nella seconda fase della pandemia di Covid-19 ha spesso traballato a causa, tra gli altri, della mancanza di step precisi e predefiniti seguiti in maniera univoca. Ricordi le zone gialle, poi rosse, poi bianche e quante volte le abbiamo cambiate? Ecco.
Serve un organo comunicativo che tenga le conferenze stampa, veicoli informazioni con la terminologia giusta (la pandemia non è una guerra, che ha un suo vocabolario specifico) e sappia anche dire “non lo so”.
Un concetto, quello dell’incertezza, che per la politica rappresenta un problema ma che nella scienza è invece un dato oltreché un risultato. E che appartiene anche alla vita di ciascuno di noi: non dimentichiamocelo.
Fonte | Ansa